giovedì 31 gennaio 2013

L'avvenire della scuola dell'infanzia. Riflessioni per un sistema.


Maria Cleofe Filippi

Prima di fare alcune riflessioni sul futuro delle scuole d’infanzia in Emilia Romagna e in Italia ritengo necessario non dare per scontate alcune premesse/sottolineature:
  • Il valore d’istruzione come trainante e prevalente sul valore sociale del servizio 0-6, condiviso sicuramente da tutti noi emiliani, ma negato dalle scelte dei governi di destra che hanno fortemente accentuato l’aspetto di custodia e cura ridotto quasi a “badantato” etichettandolo peraltro come politiche di sostegno alla famiglia.
Una recente ricerca dell’università di Torino condotta da Daniela Del Boca e Silvia Pasqua ha messo in relazione la probabilità di successo scolastico alle superiori e all’università con la frequenza dei servizi educativi 0-6, ed è risultato che a parità delle altre condizioni socio culturali, chi aveva frequentato il nido aveva risultati migliori sia nelle prestazioni cognitive che in quelle relazionali.
Inoltre utilizzando i data base dell’INVALSI hanno verificato che fra chi proviene da un contesto sociale svantaggiato, chi ha frequentato il nido ottiene risultati scolastici migliori.

È paradossale che nel momento in cui verifichiamo l’efficacia di un sistema lo smantelliamo!
Risulta inoltre dimostrato che equità e qualità sono legate, e queste ricerche ci confermano che per essere efficace il sistema deve necessariamente essere equo nel consentire l’accesso a tutti.

  • Il valore dell’autonomia delle regioni nella scelta del sistema dell’offerta formativa che ci portano a rivendicare una piena e matura attuazione del titolo V contro le ultime scelte che spingono in direzione avversa e contraria.
  • Il valore delle scelte della nostra regione sia nel pensare insieme il sistema 0-6, sia nel pensarlo come sistema integrato fra statale e paritario comunale e FISM o altri.
  • La condivisione della scelta di generalizzare il sistema dell’infanzia su scala nazionale, anzi ritengo che si potrebbe ragionare di obbligatorietà in quanto la scuola dell’infanzia è reale motore di integrazione sociale, di pari opportunità per tutti, premessa indispensabile per un patto per la crescita intelligente, sostenibile e inclusiva.

Partendo da queste premesse è necessario porsi il problema della unitarietà e sostenibilità del sistema a livello nazionale evitando che ogni singola regione cerchi soluzioni caso per caso.

Sarebbe fondamentale avere dati chiari e certi regione per regione su base anagrafica e sulla quantità e tipologia dei servizi erogati.
Solo partendo da dati certi si può impostare una riflessione seria, tentare di definire uno standard di servizio, di costo per bambino e/o per sezione e da lì arrivare a definire i trasferimenti certi e costanti per l’infanzia.
Sappiamo tutti con amarezza che dopo il piano nidi del ’71 con la legge 1044 abbiamo dovuto aspettare il piano del ministro Bindi e gli organici del ministro Fioroni sull’infanzia – subito interrotti dalla caduta del governo Prodi – per poter sperare di programmare seriamente per l’infanzia e le famiglie.
Definire i trasferimenti alle regioni – dicevo – che possono essere valutati sia sotto forma di organici che di risorse economiche, valorizzando le scelte delle regioni.
Per esempio:Osservando i dati al 2008/09 risulta una forte sperequazione nella distribuzione fra regioni delle scuole d’infanzia statali.
L’offerta statale che si attesta intorno al 58,09% di media e ha una forbice distributiva che va dalla percentuale minima del 32,15% della regione Veneto alla massima dell’80% delle Marche e vede cinque regioni al di sotto della media: Lazio -2,3%; Liguria -4,7%; Emilia Romagna -11,3%; Lombardia -15,7%; Veneto -26,6%.
Questo “gap” va riconosciuto e colmato o aumentando l’organico o aumentando i trasferimenti per pari valore.
Dobbiamo rendere evidente l’ingiustizia sia dei tagli lineari sia dei mancati trasferimenti agli eell che avvengono senza tenere in considerazione chi fornisce servizi in proprio e chi si appoggia allo stato.
Con questo sistema risulta virtuoso chi non fa nulla! Magari anche con molto personale negli uffici!
La scuola va tolta dal patto di stabilità sia per la spesa corrente che per gli investimenti, e vanno tolti tutti i vincoli sul personale come avviene per le scuole statali.

È necessario inoltre riflettere sulla sostenibilità nel suo insieme.
Il sistema deve essere sostenibile per le famiglie, per gli enti locali e per lo stato.
Sappiamo tutti che le scuole statali costano più delle comunali che a sua volta costano più delle altre paritarie.
Basta paragonare i contratti in ingresso dei docenti e si capisce subito:
un docente statale costa circa 30.130 a fronte di 25 ore settimanali con un servizio a calendario e orario ridotto, uno comunale (30.330) 200 euro in più per 36 ore settimanali a calendario pieno, mentre un docente FISM costa 4.600 euro in meno (25.530) per 32 ore AGIDAE (28.845) 1289 euro in meno per 31 ore e ANISEI (23.690) 6.440 euro in meno per 34 ore.
Senza tener conto poi del numero di alunni per sezione vincolata solo per i comuni a 25, variabile significativa per definire il costo per bambino.

Bisogna affrontare il problema con la consapevolezza che il raggiungimento degli obiettivi di Lisbona attraverso la generalizzazione della statizzazione (come qualcuno propone) avrebbe dei costi attualmente insostenibili, inoltre avrebbe la conseguenza di distruggere, in Emilia Romagna, il sistema integrato che per noi è valido non certo per gli aspetti economici, ma per il valore culturale e pedagogico che abbiamo costruito con scelte di politica scolastica che appartengono alla storia tutta emiliana delle politiche per l’infanzia.

L’esperienza inoltre ci insegna che solo se l’ente locale gestisce direttamente tra il 20 e il 30% delle scuole riesce a trainare e incidere sul sistema.

Bisogna che lo stato si renda conto che se non affronta il problema e non sostiene in modo serio gli enti locali considerandoli alleati preziosi, anche nel migliorare la qualità del sistema, ci allontaneremo da Lisbona e recuperare poi terreno, costerà molto di più, con conseguenze sociali molto più ampie delle sole liste d’attesa.

La scuola dell’infanzia è un investimento sociale redditizio, non un costo.

Una sezione d’infanzia comunale costa grossomodo 140.000 euro anno, mentre i finanziamenti alle paritarie ammontano a circa 12.000. È un rapporto ridicolo se non offensivo, tant’è che molti comuni per far sopravvivere le scuole FISM e non ridurre l’offerta di posti, stipulano convenzioni che integrano il contributo statale con cifre una volta e mezzo superiori a quelle dello Stato!
Se si riflette poi sul fatto che dei 510.000.000 destinati alle scuole paritarie, il 67,2% riguarda le scuole d’infanzia, ci si rende conto della dimensione nazionale del problema.
Credo che sarebbe dignitoso se lo stato si accollasse almeno un terzo dei costi di queste sezioni e non l’8%, neppure un decimo, come fa ora.


La crisi ha reso ancora più serio il problema per le famiglie e per gli enti locali, credo che quando saremo al governo, le politiche per l’infanzia, compresa la volontà di spostare anche i nidi dal sociale all’istruzione, debba certamente essere una delle priorità dell’agenda Bersani.

"Riforma della scuola" n°16

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