Maria Cleofe Filippi
Prima
di fare alcune riflessioni sul futuro delle scuole d’infanzia in
Emilia Romagna e in Italia ritengo necessario non dare per scontate
alcune premesse/sottolineature:
- Il valore d’istruzione come trainante e prevalente sul valore sociale del servizio 0-6, condiviso sicuramente da tutti noi emiliani, ma negato dalle scelte dei governi di destra che hanno fortemente accentuato l’aspetto di custodia e cura ridotto quasi a “badantato” etichettandolo peraltro come politiche di sostegno alla famiglia.
Una
recente ricerca dell’università di Torino condotta da Daniela Del
Boca e Silvia Pasqua ha messo in relazione la probabilità di
successo scolastico alle superiori e all’università con la
frequenza dei servizi educativi 0-6, ed è risultato che a parità
delle altre condizioni socio culturali, chi aveva frequentato il nido
aveva risultati migliori sia nelle prestazioni cognitive che in
quelle relazionali.
Inoltre
utilizzando i data base dell’INVALSI hanno verificato che fra chi
proviene da un contesto sociale svantaggiato, chi ha frequentato il
nido ottiene risultati scolastici migliori.
È
paradossale che nel momento in cui verifichiamo l’efficacia di un
sistema lo smantelliamo!
Risulta
inoltre dimostrato che equità e qualità sono legate, e queste
ricerche ci confermano che per essere efficace il sistema deve
necessariamente essere equo nel consentire l’accesso a tutti.
- Il valore dell’autonomia delle regioni nella scelta del sistema dell’offerta formativa che ci portano a rivendicare una piena e matura attuazione del titolo V contro le ultime scelte che spingono in direzione avversa e contraria.
- Il valore delle scelte della nostra regione sia nel pensare insieme il sistema 0-6, sia nel pensarlo come sistema integrato fra statale e paritario comunale e FISM o altri.
- La condivisione della scelta di generalizzare il sistema dell’infanzia su scala nazionale, anzi ritengo che si potrebbe ragionare di obbligatorietà in quanto la scuola dell’infanzia è reale motore di integrazione sociale, di pari opportunità per tutti, premessa indispensabile per un patto per la crescita intelligente, sostenibile e inclusiva.
Partendo
da queste premesse è necessario porsi il problema della unitarietà
e sostenibilità del sistema a livello nazionale evitando che ogni
singola regione cerchi soluzioni caso per caso.
Sarebbe
fondamentale avere dati chiari e certi regione per regione su base
anagrafica e sulla quantità e tipologia dei servizi erogati.
Solo
partendo da dati certi si può impostare una riflessione seria,
tentare di definire uno standard di servizio, di costo per bambino
e/o per sezione e da lì arrivare a definire i trasferimenti certi e
costanti per l’infanzia.
Sappiamo
tutti con amarezza che dopo il piano nidi del ’71 con la legge 1044
abbiamo dovuto aspettare il piano del ministro Bindi e gli organici
del ministro Fioroni sull’infanzia – subito interrotti dalla
caduta del governo Prodi – per poter sperare di programmare
seriamente per l’infanzia e le famiglie.
Definire
i trasferimenti alle regioni – dicevo – che possono essere
valutati sia sotto forma di organici che di risorse economiche,
valorizzando le scelte delle regioni.
Per
esempio:Osservando i dati al 2008/09 risulta una forte sperequazione
nella distribuzione fra regioni delle scuole d’infanzia statali.
L’offerta
statale che si attesta intorno al 58,09% di media e ha una forbice
distributiva che va dalla percentuale minima del 32,15% della regione
Veneto alla massima dell’80% delle Marche e vede cinque regioni al
di sotto della media: Lazio -2,3%; Liguria -4,7%; Emilia Romagna
-11,3%; Lombardia -15,7%; Veneto -26,6%.
Questo
“gap” va riconosciuto e colmato o aumentando l’organico o
aumentando i trasferimenti per pari valore.
Dobbiamo
rendere evidente l’ingiustizia sia dei tagli lineari sia dei
mancati trasferimenti agli eell che avvengono senza tenere in
considerazione chi fornisce servizi in proprio e chi si appoggia allo
stato.
Con
questo sistema risulta virtuoso chi non fa nulla! Magari anche con
molto personale negli uffici!
La
scuola va tolta dal patto di stabilità sia per la spesa corrente che
per gli investimenti, e vanno tolti tutti i vincoli sul personale
come avviene per le scuole statali.
È
necessario inoltre riflettere sulla sostenibilità nel suo insieme.
Il
sistema deve essere sostenibile per le famiglie, per gli enti locali
e per lo stato.
Sappiamo
tutti che le scuole statali costano più delle comunali che a sua
volta costano più delle altre paritarie.
Basta
paragonare i contratti in ingresso dei docenti e si capisce subito:
un
docente statale costa circa 30.130 a fronte di 25 ore settimanali con
un servizio a calendario e orario ridotto, uno comunale (30.330) 200
euro in più per 36 ore settimanali a calendario pieno, mentre un
docente FISM costa 4.600 euro in meno (25.530) per 32 ore AGIDAE
(28.845) 1289 euro in meno per 31 ore e ANISEI (23.690) 6.440 euro in
meno per 34 ore.
Senza
tener conto poi del numero di alunni per sezione vincolata solo per i
comuni a 25, variabile significativa per definire il costo per
bambino.
Bisogna
affrontare il problema con la consapevolezza che il raggiungimento
degli obiettivi di Lisbona attraverso la generalizzazione della
statizzazione (come qualcuno propone) avrebbe dei costi attualmente
insostenibili, inoltre avrebbe la conseguenza di distruggere, in
Emilia Romagna, il sistema integrato che per noi è valido non certo
per gli aspetti economici, ma per il valore culturale e pedagogico
che abbiamo costruito con scelte di politica scolastica che
appartengono alla storia tutta emiliana delle politiche per
l’infanzia.
L’esperienza
inoltre ci insegna che solo se l’ente locale gestisce direttamente
tra il 20 e il 30% delle scuole riesce a trainare e incidere sul
sistema.
Bisogna
che lo stato si renda conto che se non affronta il problema e non
sostiene in modo serio gli enti locali considerandoli alleati
preziosi, anche nel migliorare la qualità del sistema, ci
allontaneremo da Lisbona e recuperare poi terreno, costerà molto di
più, con conseguenze sociali molto più ampie delle sole liste
d’attesa.
La
scuola dell’infanzia è un investimento sociale redditizio, non un
costo.
Una
sezione d’infanzia comunale costa grossomodo 140.000 euro anno,
mentre i finanziamenti alle paritarie ammontano a circa 12.000. È un
rapporto ridicolo se non offensivo, tant’è che molti comuni per
far sopravvivere le scuole FISM e non ridurre l’offerta di posti,
stipulano convenzioni che integrano il contributo statale con cifre
una volta e mezzo superiori a quelle dello Stato!
Se
si riflette poi sul fatto che dei 510.000.000 destinati alle scuole
paritarie, il 67,2% riguarda le scuole d’infanzia, ci si rende
conto della dimensione nazionale del problema.
Credo
che sarebbe dignitoso se lo stato si accollasse almeno un terzo dei
costi di queste sezioni e non l’8%, neppure un decimo, come fa ora.
La
crisi ha reso ancora più serio il problema per le famiglie e per gli
enti locali, credo che quando saremo al governo, le politiche per
l’infanzia, compresa la volontà di spostare anche i nidi dal
sociale all’istruzione, debba certamente essere una delle priorità
dell’agenda Bersani.
"Riforma della scuola" n°16
Torna alla copertina di "Riforma della scuola"
"Riforma della scuola" n°16
Torna alla copertina di "Riforma della scuola"