giovedì 31 gennaio 2013

L'avvenire della scuola dell'infanzia. Riflessioni per un sistema.


Maria Cleofe Filippi

Prima di fare alcune riflessioni sul futuro delle scuole d’infanzia in Emilia Romagna e in Italia ritengo necessario non dare per scontate alcune premesse/sottolineature:
  • Il valore d’istruzione come trainante e prevalente sul valore sociale del servizio 0-6, condiviso sicuramente da tutti noi emiliani, ma negato dalle scelte dei governi di destra che hanno fortemente accentuato l’aspetto di custodia e cura ridotto quasi a “badantato” etichettandolo peraltro come politiche di sostegno alla famiglia.
Una recente ricerca dell’università di Torino condotta da Daniela Del Boca e Silvia Pasqua ha messo in relazione la probabilità di successo scolastico alle superiori e all’università con la frequenza dei servizi educativi 0-6, ed è risultato che a parità delle altre condizioni socio culturali, chi aveva frequentato il nido aveva risultati migliori sia nelle prestazioni cognitive che in quelle relazionali.
Inoltre utilizzando i data base dell’INVALSI hanno verificato che fra chi proviene da un contesto sociale svantaggiato, chi ha frequentato il nido ottiene risultati scolastici migliori.

È paradossale che nel momento in cui verifichiamo l’efficacia di un sistema lo smantelliamo!
Risulta inoltre dimostrato che equità e qualità sono legate, e queste ricerche ci confermano che per essere efficace il sistema deve necessariamente essere equo nel consentire l’accesso a tutti.

  • Il valore dell’autonomia delle regioni nella scelta del sistema dell’offerta formativa che ci portano a rivendicare una piena e matura attuazione del titolo V contro le ultime scelte che spingono in direzione avversa e contraria.
  • Il valore delle scelte della nostra regione sia nel pensare insieme il sistema 0-6, sia nel pensarlo come sistema integrato fra statale e paritario comunale e FISM o altri.
  • La condivisione della scelta di generalizzare il sistema dell’infanzia su scala nazionale, anzi ritengo che si potrebbe ragionare di obbligatorietà in quanto la scuola dell’infanzia è reale motore di integrazione sociale, di pari opportunità per tutti, premessa indispensabile per un patto per la crescita intelligente, sostenibile e inclusiva.

Partendo da queste premesse è necessario porsi il problema della unitarietà e sostenibilità del sistema a livello nazionale evitando che ogni singola regione cerchi soluzioni caso per caso.

Sarebbe fondamentale avere dati chiari e certi regione per regione su base anagrafica e sulla quantità e tipologia dei servizi erogati.
Solo partendo da dati certi si può impostare una riflessione seria, tentare di definire uno standard di servizio, di costo per bambino e/o per sezione e da lì arrivare a definire i trasferimenti certi e costanti per l’infanzia.
Sappiamo tutti con amarezza che dopo il piano nidi del ’71 con la legge 1044 abbiamo dovuto aspettare il piano del ministro Bindi e gli organici del ministro Fioroni sull’infanzia – subito interrotti dalla caduta del governo Prodi – per poter sperare di programmare seriamente per l’infanzia e le famiglie.
Definire i trasferimenti alle regioni – dicevo – che possono essere valutati sia sotto forma di organici che di risorse economiche, valorizzando le scelte delle regioni.
Per esempio:Osservando i dati al 2008/09 risulta una forte sperequazione nella distribuzione fra regioni delle scuole d’infanzia statali.
L’offerta statale che si attesta intorno al 58,09% di media e ha una forbice distributiva che va dalla percentuale minima del 32,15% della regione Veneto alla massima dell’80% delle Marche e vede cinque regioni al di sotto della media: Lazio -2,3%; Liguria -4,7%; Emilia Romagna -11,3%; Lombardia -15,7%; Veneto -26,6%.
Questo “gap” va riconosciuto e colmato o aumentando l’organico o aumentando i trasferimenti per pari valore.
Dobbiamo rendere evidente l’ingiustizia sia dei tagli lineari sia dei mancati trasferimenti agli eell che avvengono senza tenere in considerazione chi fornisce servizi in proprio e chi si appoggia allo stato.
Con questo sistema risulta virtuoso chi non fa nulla! Magari anche con molto personale negli uffici!
La scuola va tolta dal patto di stabilità sia per la spesa corrente che per gli investimenti, e vanno tolti tutti i vincoli sul personale come avviene per le scuole statali.

È necessario inoltre riflettere sulla sostenibilità nel suo insieme.
Il sistema deve essere sostenibile per le famiglie, per gli enti locali e per lo stato.
Sappiamo tutti che le scuole statali costano più delle comunali che a sua volta costano più delle altre paritarie.
Basta paragonare i contratti in ingresso dei docenti e si capisce subito:
un docente statale costa circa 30.130 a fronte di 25 ore settimanali con un servizio a calendario e orario ridotto, uno comunale (30.330) 200 euro in più per 36 ore settimanali a calendario pieno, mentre un docente FISM costa 4.600 euro in meno (25.530) per 32 ore AGIDAE (28.845) 1289 euro in meno per 31 ore e ANISEI (23.690) 6.440 euro in meno per 34 ore.
Senza tener conto poi del numero di alunni per sezione vincolata solo per i comuni a 25, variabile significativa per definire il costo per bambino.

Bisogna affrontare il problema con la consapevolezza che il raggiungimento degli obiettivi di Lisbona attraverso la generalizzazione della statizzazione (come qualcuno propone) avrebbe dei costi attualmente insostenibili, inoltre avrebbe la conseguenza di distruggere, in Emilia Romagna, il sistema integrato che per noi è valido non certo per gli aspetti economici, ma per il valore culturale e pedagogico che abbiamo costruito con scelte di politica scolastica che appartengono alla storia tutta emiliana delle politiche per l’infanzia.

L’esperienza inoltre ci insegna che solo se l’ente locale gestisce direttamente tra il 20 e il 30% delle scuole riesce a trainare e incidere sul sistema.

Bisogna che lo stato si renda conto che se non affronta il problema e non sostiene in modo serio gli enti locali considerandoli alleati preziosi, anche nel migliorare la qualità del sistema, ci allontaneremo da Lisbona e recuperare poi terreno, costerà molto di più, con conseguenze sociali molto più ampie delle sole liste d’attesa.

La scuola dell’infanzia è un investimento sociale redditizio, non un costo.

Una sezione d’infanzia comunale costa grossomodo 140.000 euro anno, mentre i finanziamenti alle paritarie ammontano a circa 12.000. È un rapporto ridicolo se non offensivo, tant’è che molti comuni per far sopravvivere le scuole FISM e non ridurre l’offerta di posti, stipulano convenzioni che integrano il contributo statale con cifre una volta e mezzo superiori a quelle dello Stato!
Se si riflette poi sul fatto che dei 510.000.000 destinati alle scuole paritarie, il 67,2% riguarda le scuole d’infanzia, ci si rende conto della dimensione nazionale del problema.
Credo che sarebbe dignitoso se lo stato si accollasse almeno un terzo dei costi di queste sezioni e non l’8%, neppure un decimo, come fa ora.


La crisi ha reso ancora più serio il problema per le famiglie e per gli enti locali, credo che quando saremo al governo, le politiche per l’infanzia, compresa la volontà di spostare anche i nidi dal sociale all’istruzione, debba certamente essere una delle priorità dell’agenda Bersani.

"Riforma della scuola" n°16

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domenica 30 dicembre 2012

L’Italia giusta si prepara a scuola



Francesca Puglisi*


Dalle favole ai fatti

Il governo Berlusconi ha sempre raccontato favole, prima con le tre I della Moratti (inglese, internet, impresa) poi con gli slogan Serietà, merito, educazione della Gelmini, mentre nei fatti avveniva il più grande licenziamento di massa: 8 miliardi di tagli, e 132.000 posti in meno. Anche la qualità è calata: il maestro unico, il taglio del tempo pieno, il sostegno (il rapporto è salito da 1,95 a 2,03 alunni per ogni docente di sostegno), le classi pollaio (60 mila classi dove l’evacuazione potrebbe essere un problema) sono negatività che hanno inciso sugli apprendimenti dei bambini italiani che sono crollati col ministro Gelmini: nelle rilevazioni Iea in lettura i bambini delle 4° elementari passano dal 6° posto del 2006 al 16° del 2011; in matematica passano dal 16° al 24° e in Scienze dal 4° all'11°. Il ministro Profumo sembrava voler far meglio, in realtà il governo Monti ha seguito la tabella di marcia dei tagli allistruzione dettata da Tremonti e ha poi chiuso con limprovvida proposta di aumentare senza corrispettivo lorario di lavoro dei docenti, accusandoli di conservatorismo.

Se tocca a noi

La scuola non ha bisogno di grandi riforme, ha bisogno di stabilità, fiducia e risorse. Promuoveremo una fase costituente con una grande consultazione nazionale e riporteremo gradualmente linvestimento almeno al livello medio dei Paesi OCSE (6% del PIL), tagliando altrove la spesa statale. Il nostro obiettivo è dimezzare il tasso di dispersione scolastica e raddoppiare il numero di laureati, poiché le ricerche internazionali dimostrano che più istruzione significa più sviluppo. Ed è fondamentale cominciare bene: per il PD la scuola dei più piccoli (0-6 anni) non è un servizio ma un diritto di tutti, per questo è urgente varare un nuovo piano per raggiungere l'obiettivo del 33% di copertura dei posti all'asilo nido come chiesto dall'Europa e garantire a tutti un posto nella scuola dell'infanzia. Nella scuola primaria vogliamo rimettere in vetrina i gioielli di famiglia del sistema scolastico italiano: tempo pieno e modulo a 30 ore con le compresenze, mentre per la scuola media, punto critico per l'abbandono scolastico, dobbiamo reclutare una leva di insegnanti specializzati per preadolescenza e adolescenza, e allungare il tempo scuola (scuole aperte anche al pomeriggio con sport, tecnologia, studio in gruppo, laboratori, classe aperte ecc). Per il ciclo superiore, il Pd propone  un primo biennio unitario, così che la scelta a quale scuola iscriversi non sia fatta in 3° media, troppo presto, ma maturi dopo i primi due anni della secondaria. Inoltre, è fondamentale rilanciare l'istruzione e la formazione tecnica e professionale per rilanciare il Made in Italy nel mondo. Per questo serve una nuova governance territoriale per migliorare lofferta formativa puntando a istituire Poli per lIstruzione Tecnica Superiore che tengano insieme listruzione tecnica / Professionale e la formazione professionale (sistema integrato), le imprese, luniversità e il mondo della ricerca. Listruzione e formazione tecnica superiore (IFTS) va potenziata e gli Istituti Tecnici Superiori (ITS), istituiti come esperienze di formazione terziaria non accademica, devono rispondere sia alle esigenze imprenditoriali locali in continua trasformazione, sia ad unofferta di eccellenza, da consolidare nei settori strategici dello sviluppo del Paese.
Ridare fiducia alla scuola significa garantire un organico funzionale (cioè una dotazione di personale) stabile per almeno un triennio, attraverso un nuovo piano pluriennale di esaurimento delle graduatorie per stabilizzare i precari (lo Stato spende di più a licenziarli ogni anno!), significa potenziare lautonomia scolastica valorizzando gli organi collegiali esistenti e riformandoli con laiuto di insegnanti, dirigenti scolastici, studenti, genitori, Ata; significa una valutazione non punitiva, che accompagni le scuole al miglioramento, con un unico Istituto Nazionale per la Valutazione e la Ricerca Educativa.
Pensiamo anche ai giovani che vogliono insegnare: la nostra proposta prevede la selezione attraverso concorso dei migliori laureati per laccesso alla formazione iniziale per ottenere l'abilitazione, un anno di prova attraverso tirocinio e supplenze brevi e firma del contratto a tempo indeterminato. E gli insegnanti meritano quel prestigio sociale che i governi prevedenti hanno negato, anche attraverso un nuovo contratto nazionale che attribuisca una retribuzione più alta per chi decide di svolgere a scuola nel pomeriggio le attività svolte oggi a casa come la correzione dei compiti, la preparazione delle lezioni, la formazione, ecc.
Le condizioni disastrose delledilizia scolastica, sono una vera e propria emergenza nazionale, che va affrontata subito, allentando il patto di stabilità interno degli Enti Locali che investono per ristrutturare o edificare nuove scuole, rifinanziando la nostra legge 23 e offrendo ai cittadini la possibilità di destinare l'8 x mille all'edilizia scolastica.
Scuole più sicure ma anche scuole più moderne per i ragazzi dell’era digitale: è urgente garantire laccesso a Internet nelle classi (e non solo nelle segreterie!) e dotare insegnanti (adeguatamente formati) e alunni del materiale tecnologico anche in comodato gratuito, nonché sviluppare le Risorse educative aperte (OER-Open educational resources).

*Responsabile Scuola della Segreteria nazionale PD


"Riforma della scuola" n° 16 

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martedì 20 novembre 2012

La meritocrazia dei liberisti


Andrea Ranieri

La parola “meritocrazia” fu coniata da un sociologo inglese laburista Michael Young agli inizi degli anni ’50. Il libro “L’origine della meritocrazia” fu pubblicato in italiano dalle edizioni di Comunità, di Adriano Olivetti.
E’ un libro di fantasociologia, in cui, dopo aver all’inizio fatto l’elogio del termine contrapposto alle varie aristocrazie e gerontocrazie dominanti, mostra le assurdità di una società in cui ricchezza e potere vengono distribuiti sulla base dei risultati scolastici e ancor peggio dei quozienti di intelligenza.
La casta che ne deriverebbe, secondo Young, sarebbe ancora più chiusa, impermeabile, escludente, delle vecchie caste a cui si contrappone.
In particolare la scuola finirebbe per rendere la selezione sempre più precoce concentrando sui pochi le eccellenze educative, ed aumentando a dismisura la selezione e la dispersione di quanti non si adeguano agli standard di intelligenza dagli stessi “intelligenti” definiti.
Sarebbe l’ora di restituire l’onore-magari ripubblicando il suo libro- a questo vecchio laburista, fiero avversario del blairismo, della progressiva acquiescenza della sinistra al pensiero unico neoliberista, e fatto passare da morto, grazie al titolo del suo libro più importante, ”The rise of meritocracy”, uscito nel 1958, quasi come un anticipatore dello stesso, il precursore, attraverso la scoperta della meritocrazia, di una società in cui i valori del mercato e della competizione avrebbero impregnato di sé ogni aspetto della vita sociale, a cominciare dall’istruzione.
Fra i meritocratici italiani “riscopritori” di Young spicca indubbiamente Roger Abravanel, una grande carriera in Mc Kinsey, e autore nel suo “Meritocrazia” di una lettura di Young che oscilla fra l’incomprensione e la usucapione arbitraria del termine e del pensiero del nostro. Non c’è da stupirsi più di tanto, perché operazioni di questo tipo non le fanno solo i consulenti alla moda, ma anche l’Accademia.
Basta affacciarsi ad un manuale di marketing per imbattersi nell’”effetto Veblen”, che si ha quando l’aumento di prezzo di certi beni, anzi che scoraggiare il consumatore, ne aumenta l’appetibilità e lo smercio. E Thorsten Veblen che già nel 1899 aveva messo a nudo il “consumo vistoso” come l’indicatore del prevalere della rendita e della speculazione, della ricchezza senza lavoro e senza intelligenza, una sopravvivenza dell’arcaico istinto di rapina nelle classi agiate della società, e un modo perverso e assolutamente attuale per far sognare ai poveri i sogni dei ricchi, viene presentato ai nostri giovani come l’inventore della più raffinata e postmoderna tecnica di marketing. Il pioniere dell’economia esperienziale.
Del resto ci aveva avvertito Walter Benjamin. “Se vincono loro nemmeno i nostri morti sono al sicuro”. Ed è indubbio che per lungo tempo il “loro” pensiero, quello che fa del mercato l’alfa e l’omega non solo delle transazioni economiche ma anche delle relazioni sociali e degli ambiti di vita, ha vinto, trascinando con sé anche gran parte della sinistra, trascinata dai “vincenti” Bill Clinton e Tony Blair.
John Goldthorpe e Michelle Jackson in un saggio del 2008, pubblicato in Italia da Stato e mercato, hanno giustamente indicato in Daniel Bell e nei “liberal della guerra fredda” gli autori della traslazione del termine meritocrazia da negativo a positivo.
La meritocrazia è, per Bell, una caratteristica fondamentale dell’era postindustriale. Il merito scolastico avrebbe dovuto diventare la griglia fondamentale attraverso cui si selezionavano i quadri e i tecnici più efficienti di cui la nuova economia e la nuova società avevano bisogno, e il merito scolastico avrebbe dato una nuova giustificazione morale alle inevitabili disuguaglianze di reddito e di agiatezza. In questo quadro la meritocrazia diventa un argine contro posizioni liberal più radicali, che puntavano ad una progressiva uguaglianza non solo delle opportunità, ma anche degli esiti, e che trovavano una base teorica e filosofica nelle Teoria della giustizia di John Rawls.
Adire il vero per Bell la meritocrazia stava dentro una evoluzione in cui le disuguaglianze sarebbero diminuite, per via del peso crescente che avrebbero assunte le decisioni politiche, prima di tutto proprio sul terreno della conoscenza, nell’economia post industriale. Quali fortune abbiano avuto queste “previsioni” è sotto gli occhi di tutti.
Resta il fatto che la istruzione assume il ruolo di leggittimatore in ultima istanza delle disuguaglianze, con una radicale inversione di senso rispetto ai classici dell’illuminismo( Condorcet), ma anche rispetto ad Adam Smith, per cui il compito fondamentale dell’istruzione pubblica era il contrastare proprio il formarsi e il consolidarsi delle disuguaglianze, l’estendersi puro e semplice del mercato alla società tuta intera.
G. e J. nel saggio citato mettono a nudo una grande contraddizione della meritocrazia. Quella di cioè di volere essere una giustificazione etica delle disuguaglianze nella società di mercato, e al tempo stesso di aver bisogno per affermarsi di uno Stato fortissimo, capace di contrastare alla radice le condizioni di maggior favore dovute alla nascita e al censo.
Che del resto è un punto centrale dello stesso libro di Young. Abolizione secca della trasmissione ereditaria delle ricchezze, chiusura di tutte le scuole private, anticipazione sempre più precoce, e rigidamente subordinata ai quozienti di intelligenza, delle differenti carriere scolastiche e lavorative. E uno Stato costretto ad intervenire contro il traffico del DNA, man mano che i progressi dell’eugenetica- che della meritocrazia è corollario- permettono di prevedere, fin dal grembo della madre, le attitudini al sapere e al comando dei nascituri.
Del resto se vogliamo trovare nel mondo moderno i mondi che più hanno distribuito prestigio e potere sulla base del merito scolastico- sono sempre G. e J. A dircelo- bisogna fare riferimento ai Paesi del socialismo “reale”, e oggi probabilmente alla Cina, fatte salve le prerogative intangibili delle alte burocrazie di Partito, la cui preoccupazione di come trasmettere potere e ricchezza ai figli sembra del tutto omologa a quelle dei ricchi della società capitalistica. Una bella contraddizione comunque per chi ha inventato la meritocrazia per giustificare le disuguaglianze nel capitalismo liberista.
Ma di Stato ci sarebbe anche bisogno a valle del processo formativo, perché le imprese dovrebbero tener conto dei risultati della scuola e dell’Università per distribuire posizioni professionali e potere. Cosa inconcepibile per un classico del liberismo come Hayek, che la liquidò in due scritti del 1970 e del 1976 sostenendo che in un’economia di mercato spetta ai datori di lavoro e solo a loro valutare il merito e il potenziale produttivo dei loro dipendenti. E sulla base di parametri quali l’attitudine al comando, la capacità di stabilire relazioni, il fiuto per tutto ciò che si può tradurre in denaro, insomma “quel certo non so che”, che si acquisisce più facilmente nelle “buone famiglie” che nella scuola e nell’Università. Ma, obiettano i meritocratici contemporanei, se, nell’economia della conoscenza, non si dà spazio al merito si fallisce. Appunto, si fallisce alla grande come dimostra la crisi finanziaria in corso, in cui quelli dei piani alti, circondati da tanti giovanotti addestrati a tradurre merito in denaro e potere, hanno ignorato ogni elemento di conoscenza che potesse mettere in discussione le loro posizioni di comando e le loro ricchezze, portando alla rovina le loro società e la vita di milioni di persone. Perché, è Manuel Castells a dircelo, nel mondo presente “le tecnologie del potere” mettono sistematicamente in scacco “il potere delle tecnologie.
La base etica della etico della meritocrazia si fonda sulla capacità di promuovere l’uguaglianza delle opportunità, per permettere a tutti di competere ad armi pari nella scuola e nel mercato del lavoro, così da rimettere in movimento il famoso ascensore sociale. In termini come vedremo radicalmente diversi è stato questo un tema centrale della pedagogia democratica, che nasce proprio dal porsi la domanda se sia proprio vero che i figli della povera gente siano più stupidi di quelli dei signori, come i risultati scolastici facevano pensare. Nacque da lì l’esperienza di Barbiana, e dei tanti doposcuola popolari che anticiparono il ’68, e delle prime esperienze di tempo pieno a Torino, dove i figli degli operai immigrati venivano sistematicamente bocciati alle elementari.
Ma per farlo misero in atto percorsi educativi che si scontrarono contro la meritocrazia tradizionale della scuola italiana. Per scoprire la conoscenza nei luoghi di lavoro e di vita degli operai e dei contadini, per valorizzare il sapere che c’è nelle mani e nelle orecchie, nella musica e nei colori, nella memoria storica dei loro padri e dei loro nonni. “Perché se il sapere è solo quello dei libri, chi ha tanti libri a casa sarà sempre più avanti di chi i libri non li ha mai visti”. E arrivarono anche ai libri partendo da lì, dall’esperienza di vita dei loro quartieri e dei loro paesi, imparando che quelli come loro erano tanti nel mondo, e che tutti assieme si poteva dare dignità e speranza a quelli che le scuole di tutto il mondo mettevano ai margini e bocciavano.
La motivazione allo studio e all’impegno non era quella di prendere l’ascensore per uscire da soli dalla propria classe, ma quella di crescere tutti assieme dando valore alle capacità, che è cosa ben diversa dal merito, che tutti possiedono, e che la scuola deve far emergere e valorizzare.
Questa cultura cambiò la scuola italiana, soprattutto quella dell’infanzia e delle elementari. Produsse un nuovo sapere pedagogico. Tra il John Dewey di “Scuola e democrazia”, e Howard Gardner e la teoria delle molte intelligenze. Un sapere che dura, e che fa si che la nostra scuola primaria, nonostante i tagli, sia ancora oggi-persino nelle analisi PISA- una delle migliori del mondo, e le nostre maestre siano probabilmente le persone che meglio hanno saputo affrontare, nel disinteresse dei Ministeri e nella distrazione dell’Accademia, il mondo che ci arrivava in casa con le migrazioni.
Ma quel sapere pedagogico perdeva colpi man mano che si saliva, che si passava dalla scuola dell’apprendimento a quella delle discipline, in cui la conoscenza si specializza e si frantuma in un numero assolutamente spropositato di insegnamenti- un record rispetto agli altri Paesi europei, e l’individualismo di chi insegna, di chi impara e delle loro famiglie, prende il posto della condivisione e della cooperazione. Ma questo non migliora il “merito”. Secondo le analisi PISA che appunto il merito intendono misurare, i bambini italiani che a 9 anni sono fra i migliori del modo, precipitano a 15 agli ultimi posti della graduatoria.
Furono in fin dei conti ragioni “meritocratiche” quelle che fecero saltare la più sensata delle riforme proposte da Luigi Berlinguer, quella del ciclo unico di base, che doveva unificare scuola elementare e medie “inferiori” con un progetto educativo coerente e senza salti.
“Si prolunga l’infanzia”. “Si ritarda il momento in cui i migliori possono emergere”. “Si declassa il sapere disciplinare degli insegnanti delle medie”. Furono le ragioni opposte ad un progetto che intendeva far “salire” la qualità pedagogica della scuola italiana, fecondando con i valori della cooperazione, con l’attenzione alle diverse intelligenze, tipiche della nostra scuola primaria, anche i livelli più alti dell’istruzione.
E “meritocratiche” sono le ragioni che hanno coperto le misure che negli ultimi anni hanno segnato il progressivo disinvestimento sulla scuola, dal maestro unico nelle elementari, alla drastica riduzione del tempo pieno, alla progressiva disattenzione verso gli alunni portatori di handicap.
E pur tuttavia dagli anni 60 in poi si assiste ad un straordinario aumento dei livelli dei livelli di istruzione e dei livelli di apprendimento dei figli delle classi più svantaggiate. Le ricerche in merito ci dicono che in Italia e non solo le probabilità di raggiungere i livelli di apprendimento più alti –gli A-level- cominciano a dipendere meno dal reddito delle famiglie di provenienza. Le nuove consapevolezze pedagogiche che si fanno largo nella scuola italiana- e che ne permeano tutti i livelli, anche quelli dove è più difficile- sono contestuali ad un innalzarsi progressivo dei livelli di reddito e di consapevolezza della propria dignità e del proprio valore della classe operaia e degli strati sociali più svantaggiati.
I la voratori chiedono più sapere non solo per i propri figli ma anche per se stessi. In Italia si sviluppa l’esperienza delle 150 ore, in cui il sapere non è inteso come una modalità per uscire dalla propria classe, ma per aumentare la propria capacità di conoscere e controllare il ciclo di produzione e di riproduzione sociale, ma anche per leggere libri, per andare a teatro, per sentire musica, per rendere più ricca la propria vita. Per prendere l’ascensore tutti insieme, e migliorare tutti insieme la propria condizione di vita.
“L’operaio che vuole il figlio dottore” è lo stesso operaio che si impegna, con la lotta sindacale e con lo studio, a rendere più dignitosa e libera la sua stessa vita.
Da un punto di vista più generale quelli sono gli anni che vedono aumentare in tutto l’Occidente quella che gli economisti e i sociologi chiameranno classe media, che è quella parte della popolazione che sta in mezzo tra la parte della popolazione più ricca e quella più povera.
Poi succede che dagli anni ottanta in poi gli stessi testi standardizzati di apprendimento ci dicono che i livelli dei ragazzi provenienti dalle classi più svantaggiate ricominciano a peggiorare, in Italia e in gran parte dell’Occidente. Ce lo dicono Goldthorpe e Jackson nella loro ricerca, ce lo conferma un insospettabile come Carlo Cipollone, un economista passata dalla Banca d’Italia alla valutazione dei sistemi educativi in Italia e nel mondo, proprio ragionando sui dati forniti da G. e J. Ed è difficile non correlare questo dato con il fatto che le disuguaglianza tornano a crescere, con la finanziarizzazione dell’economia, con la deindustrializzazione, con la crescita dell’immigrazione confinata nei lavori più poveri e neri. Richard Sennet, nel suo ultimo libro “Insieme”, ci fa vedere come l’attitudine a cooperare e il riconoscimento della diversità delle intelligenze e delle capacità, che è stata il fattore fondamentale della crescita di opportunità di apprendimento per i più svantaggiati, sia in stretta correlazione con l’indice di Gini, che misura il livello di disuguaglianza dei diversi paesi. E oggi l’indice di Gini quasi ovunque registra l’aumento della disuguaglianze.
E l’ascensore sociale si blocca ovunque, sia in senso collettivo che individuale. Federico Rampini, a cui il vivere a lungo negli USA ha finalmente aperto gli occhi sulla natura e sugli effetti sociali del liberismo, documenta nel suo ultimo libro, volto a spiegare la falsità del luogo comune “Non ci possiamo più permettere uno Stato sociale”, nella collana che l’editore Laterza sta dedicando a demistificare i tanti “idola” di questo tipo, come, per effetto di anni di politiche deregolatorie, la classe media si stia rapidamente contraendo, e di come contestualmente diminuisca la possibilità dei giovani delle classi più basse di laurearsi e di trovare, se laureati, un lavoro che dia un reddito superiore a quello dei loro padri, o di trovare un lavoro qualsiasi.
Il prestito d’onore, uno strumento che i meritocratici amano tanto perché denota responsabilità personale ed evita l’aborrito intervento dello Stato, sta per creare una bolla finanziaria simile a quella dei mutui sub prime per l’acquisto delle case, dal momento che chi lavora poco e male ha qualche difficoltà a restituire prestiti sempre più alti e sempre più onerosi. I giovani americani vedono così anticipata la fase in cui assumono la condizione di debitori, che è quella verso cui spinge la maggioranza delle persone un sistema economico e sociale che ha la pretesa di farci guadagnare di meno e farci consumare di più. E mandare anche i figli all’Università. Non è azzardato prevedere una contrazione del numero dei giovani che all’Università si iscriveranno. In Italia sta già succedendo, risolvendo verso il basso il paradosso di un Paese che ha insieme il minor numero di laureati e ricercatori dei Paesi “sviluppati” e il più alto numero di laureati e ricercatori che non lavorano o lavorano poco e male.
Abravanel, nel libro citato, contrappone alla disuguaglianza statica, quella che misura il rapporto tra la ricchezza dei più ricchi e quella dei più poveri, la disuguaglianza dinamica, quella che valuta la crescita dei singoli individui nel loro ciclo di vita. Un concetto che ha trovato ampia eco nella stessa politica della sinistra italiana e non solo. Walter Veltroni lo diceva più o meno così: il problema per noi non sono i ricchi, ma i poveri. In realtà tutto ci dimostra che il crescere dell’uguaglianza statica aumenta drasticamente la stessa disuguaglianza dinamica, e riduce la possibilità di ascesa sociale dei giovani provenienti dalla parte povera della popolazione.
In estrema sintesi mi pare che si possa dire che l’ascensore individuale funziona solo quando funziona anche l’ascensore collettivo, quello che misura il crescere in termini di reddito e di consapevolezza delle classi più svantaggiate, e si riduce la disuguaglianza. E che la scuola ha saputo aumentare le opportunità dei ragazzi poveri di crescere quando ha messo in atto modalità educative cooperative e di contrasto all’individualismo competitivo.
E pur tuttavia c’è un punto su cui i meritocratici hanno ragione. Il crescere dell’importanza delle conoscenza per lo sviluppo delle nazioni e delle imprese. Siamo davvero dentro l’economia e la società della conoscenza, o per meglio dire del capitalismo cognitivo, per prendere le distanze da quelle letture che vedono in essa la fine di orni contraddizione basata sulla proprietà, sul reddito, sul potere.
La contraddizione dentro cui già siamo e che diventerà sempre più rilevante negli anni che verranno, e Young la anticipava con grande lucidità, è fra quelli che pensano e operano perché il sapere e il potere siano nelle mani dei pochi, più o meno meritevoli, nelle imprese, riproducendo anche di fronte al cambiamento tecnologico le ben consolidate catene di comando del taylorismo, nei territori, nelle nazioni. E chi pensa invece che essa può essere una grande occasione per far crescere le capacità di tutti, di scoprire e valorizzare il sapere che c’è in qualsiasi lavoro, delle mani e della mente, di affermare il carattere di bene comune della ricerca e della cultura, come requisito fondamentale di uno sviluppo che voglia essere socialmente e ambientalmente sostenibile. Come grande occasione per riconnettere le idee di libertà e di uguaglianza.
E’ evidente da che parte stanno i meritocratici. Del resto il sociologo pazzo di Young, quello che in prima persona tesse l’elogio della meritocrazia, così pazzo da farne l’elogio nella tumultuosa assemblea di Peterloo in cui il popolo decide di averne le palle piene di questa faccenda, e che perderà la vita nei tumulti conseguenti, ci spiega che evitare l’ascesa collettiva e l’uguaglianza è uno dei compiti primari della meritocrazia. Se assicureremo ai più intelligenti della classe operaia di salire nella scala sociale, priveremo di intelligenza il sindacato e i partiti che la rappresentano, convinceremo i più svegli di loro che è meglio investire su se stessi che sulla crescita collettiva di chi rappresentano o potrebbero rappresentare. Forse questa è la parte della profezia che si sta avverando, anche se in forme un po’ diverse da quelle ipotizzate da Young. Dentro la politica, più che fuori dalla politica, che sempre più ò diventata, anche a sinistra, un modo per cambiare la propria vita e la propria condizione sociale. E anche qui, come per i padroni di Hayek, più che per il merito e le competenze, conta “quel certo non so che” che ha che fare con il potere e con l’arbitrio.


“Riforma della scuola” n°16

“ScuolaxBersani”, una iniziativa da Bologna



La scuola ha bisogno di certezze

Gli Italiani sono consapevoli dell'importanza della scuola e della formazione, nel presente e per il futuro.
Gli studenti ed i giovani lo hanno dimostrato con ripetute espressioni forti, nelle scuole ed anche in manifestazioni importanti.
Molti genitori, soprattutto nella nostra realtà bolognese, portano avanti da anni una battaglia per la salvaguardia delle migliori esperienze.
Gli insegnanti, in largo numero, non si rassegnano a subire, con il peggioramento delle condizioni salariali e di lavoro, una riduzione costante del ruolo sociale della scuola.
Il lungo governo della Destra si è accanito contro la scuola, azzerando investimenti ed innovazione, riducendo drasticamente tempo scuola e qualità, unendo ai tagli una campagna di denigrazione senza precedenti nella storia della Repubblica.
La scuola, ferita, ha proseguito il suo lavoro, cercando di resistere ai tagli e mantenere il miglior livello possibile con un impegno professionale sempre maggiore, processi di razionalizzazione sempre più onerosi, nuove richieste di sostegno agli EE.LL, anch'essi assediati dai tagli, ed alle famiglie, già incalzate dalle conseguenze della crisi.
Si tratta di uno sforzo generoso, cui non si può chiedere di durare indefinitamente né di compensare il costante calo di risorse e investimenti.
E' urgente una svolta. Il Governo "tecnico" non è riuscito a garantirla, unendo alla sostanziale prosecuzione degli assetti voluti da Gelmini annunci e proposte normative in alcuni casi certamente negativi.
Il centrosinistra dovrà assumersi un compito di governo difficilissimo. La scarsità delle risorse non cambierà, ma proprio per questo ci vuole una decisione politica, condivisa con i cittadini, sulle priorità.
La scuola e la formazione, con l'Università e la cultura, devono tornare al centro dell'attenzione.
La scuola dell'autonomia deve avere un quadro nazionale di risorse certe e di programmi innovativi, che raccolgano, con una pratica di ascolto e partecipazione, il meglio che si è fatto e si fa.
Vogliamo una buona scuola dall'Infanzia (preceduta da una rete di asili Nido diffusi e sostenuti come essenziali servizi educativi) fino al compimento dell'obbligo, con tempi di scuola distesi e ricchi, e poi fino all'esito dei percorsi secondari, con un valido titolo tendenzialmente per tutti i giovani.
Una buona scuola sarà quella che affronterà il tema del precariato di tanti professori spesso vitali al funzionamento di molte realtà scolastiche, cercando una soluzione condivisa e tecnicamente praticabile.
Pensiamo ad una scuola inclusiva,  articolata   in cicli forti e in continuità, basata sull'obiettivo di innalzare il livello culturale e civile dell'intero Paese.
Sono temi che rimandano all'assetto generale della scuola italiana. Per questo non servirà affrontarli come singole parti, ma occorrerà che il prossimo Governo avvii un percorso "costituente", con una vasta partecipazione, per un ripensamento complessivo, per la ridefinizione di valori, obiettivi, contenuti, modelli organizzativi della scuola.
Non basterà un “governo qualsiasi”, serviranno le energie migliori, una solida esperienza, riconosciuta dall'Europa progressista che, a partire dalla Francia di Hollande, sta cercando di superare l'Europa del liberismo e dell'impotenza davanti alla crisi.
Per questo ci rivolgiamo a PIER LUIGI BERSANI. Condividiamo le sue priorità di programma, la sua affermazione secondo la quale: “Dobbiamo arrestare l’abbandono scolastico, la flessione delle iscrizioni alle nostre università, la sfiducia dei ricercatori e la demotivazione di un corpo insegnante sottopagato e sempre meno riconosciuto nella sua funzione sociale e culturale".
E ancora: "Se c’è un settore per il quale è giusto che altri ambiti rinuncino a qualcosa, è quello della ricerca e della formazione. La scuola e le università italiane hanno vissuto quindici anni di continue umiliazioni. Noi invertiremo la rotta".
E' una promessa che ha già orientato l'azione politica di PIER LUIGI BERSANI, prima nell'opposizione a Berlusconi e Gelmini, e, in questi mesi nella iniziativa costante a favore della scuola nel confronto con il Governo.
Per questo , alle primarie del Centrosinistra del 25 novembre,
VOTIAMO PIER LUIGI BERSANI.
Siamo studenti, insegnanti, direttivi e amministrativi, amministratori degli Enti Locali, ricercatori ed esperti, siamo genitori impegnati nella vita delle scuole, vogliamo promuovere occasioni di ascolto, di scelta, di decisione nelle realtà nelle quali viviamo ed operiamo ed a livello cittadino e provinciale.



Ci interessa ESSERCI , il 25 Novembre. La nostra non è, non sarà, un'adesione “ a scatola chiusa”, un voto cieco per una immagine, VOGLIAMO DISCUTERE, PARTECIPARE, AGIRE, in queste Primarie, alle future Elezioni e dopo.
Perchè la scuola ha bisogno di certezze.


Antonella Anselmi, Giovanni Caini, Nino Campisi, Giovanna Cantoni, Gabriele Chessa, Otello Ciavatti, Giancarla Codrignani, Pier Luigi Dovesi, Federico Enriques, Rosanna Facchini, Laura Facchini Degli Esposti, Davide Ferrari, Fabrizio Festa, Franca Filippini, Franco Frabboni, Estelle Giannakaris, Graziella Giorgi, Pier Paolo Greco, Daniele Grillo, Simona Lembi, On. Donata Lenzi, Sergio Lo Giudice, Sonia Mammarella, Milena Manini, Paolo Marcheselli, Teresa Marzocchi, Giulio Masala, Edoardo Mazzini, Sarah Mazzoni, Massimo Meliconi, Tullia Moretto, Giulia Naldi, Chiara Perazzo, Giovanna Pesci, Marilena Pillati, Aurora Pinto, Francesca Puglisi, Paolo Rebaudengo, Paolo Staffiere, Giovanni Sedioli, Jessy Simonini, Gianni Sofri, Sandra Soster, Yvonne Tullini, Gabriele Ventura, Andrea Vialli, Maria Visconti, Angelo Zannarini, Roberta Zampa, On. Sandra Zampa,


Riforma della scuola n°16
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Uno spartito per una attesa, difficile, nuova primavera per la scuola italiana



Uno spartito per una attesa, difficile nuova primavera per la scuola italiana.

Franco Frabboni

Dopo il successo delle primarie del Centrosinistra, che  hanno assicurato una larga vittoria al segretario Pierluigi Bersani, porto - in conseguenza con il voto espresso - alcune righe di riflessione sul sistema pubblico di istruzione che il Pd dovrà impegnarsi a garantire alle nuove generazioni negli anni a venire. Parliamo soprattutto della Scuola di base (preobbligo e obbligo) che ha vissuto nell’ultimo/terzo del Novecento un calda Primavera e poi nei primi due-lustri del Duemila un rovinoso ruzzolone invernale. 
Proprio questa caduta, non ancora terminata, impone di schierarsi, unendo la proposta ad una speranza che permane nonostante, e contro, la crisi della politica.
Questa gloriosa Scuola di base chiede (parliamo di circa un quarto degli italiani: studenti più insegnanti più genitori più enti locali più sindacati et al) al Direttore d’orchestra del prossimo Governo di potere vivere a lungo in climi estivi: caldi, perché inondati dal "sole dell’avvenire".

Su queste note di speranza, aggiungiamo un nostro breve spartito pedagogico.

Gli studiosi di Scienze dell’educazione, con l’orecchio rivolto ai rintocchi dell’orologio della Scuola di base dell’ultimo terzo del Novecento, invitano a riappropriarci del prezioso capitale di idee educative e di pratiche formative messe in cassaforte a fine Secolo dalla Pedagogia e dalla Didattica.
Sfoglieremo alcune foto ricordo della straordinaria Primavera che riscaldò il nostro sistema di istruzione. In particolare, daremo palcoscenico alle immagini indelebili che attestano il fecondo incontro tra la Pedagogia popolare e la Pedagogia accademica.
Nel darsi-la-mano, diedero vita a tre prestigiosi modelli/top: la Scuola dell’infanzia a nuovo indirizzo, la Scuola elementare a tempo pieno, la Scuola media a tempo prolungato. Parliamo di un percorso triangolare di alfabetizzazione - sotto l’egida, vorremmo, di Scuola comprensiva - plaudito in Europa e oltre oceano per l’originalità, l’uguaglianza e l’efficacia del suo abbigliamento pedagogico e didattico.
Siamo chiamati dunque a fare quattro-passi-indietro. Per rileggere un fine Novecento popolato di sciami di rondini il cui battito d’ali annunciava la stagione del risveglio del nostro sistema pubblico di istruzione.
Sono stati trent’anni del belpaese da non rimuovere. Durante i quali le nostre due/Pedagogie - la popolare (non-togata) e l’accademica (togata) - si allearono per denunciare, tramite i loro autorevoli megafoni, un sistema di istruzione sempre più enciclopedico, meritocratico e discriminatorio.
I MOSCHETTIERI NON TOGATI. Nella nostra penisola (solare, mediterranea, meridiana) è stata la Pedagogia non/accademica - nata nelle contrade periferiche - ad acquisire il merito di progettare e sperimentare una virtuosa teoria-prassi della Formazione di base. Parliamo della Pedagogia di conio popolare (nutrita dalle tante idee della scuola militante) nobilitata da moschettieri non-togati.
I loro nomi? Un lungo elenco. Un esercito di docenti, genitori, amministratori locali, parroci, educatori di territorio. In queste righe, ricordiamo dieci gloriose figure non/accademiche che riposano lassù sulla collina di Spoon River: Cecrope Barilli, Bruno Ciari, Carmine De Luca, Don Lorenzo Milani, Loris Malaguzzi, Sergio Neri, Gianni Rodari, Augusto Scocchera, Ettore Tarozzi, Margherita Zoebeli. La scommessa pedagogica è da loro giocata su una roulette popolata di bambini e di adolescenti in carne e ossa: dal volto storico e antropologico.
In questo giardino della memoria campeggia, per l’appunto, la Pedagogia popolare. Nata dal basso e ben consapevole che la Scuola mai deve abbassare la guardia da questa idea guida di natura democratica e civile: dare-di-più-a-chi-ha-di-meno.
Nella sfera di cristallo della Pedagogia popolare si respira profondamente la stagione-delle-viole che dà profumo (nessuna allusione al Ministro) al raffinato bouquet raccolto nei soleggiati prati non/togati.
I MENTORI TOGATI. Anche la Pedagogia accademica ricorda i “mentori” che riposano lassù sulla collina di Spoon River. Su questa altura dieci nobili figure togate hanno illuminato la Scuola di base dell’ultimo terzo di Novecento. I loro nomi? Sono stampati nella nostra memoria: Piero Bertolini, Mario Gattullo, Mauro Laeng, Raffaele Laporta, Lucio Lombardo Radice, Mario Mencarelli, Riccardo Massa, Antonio Santoni Rugiu, Cesare Scurati e Aldo Visalberghi. La loro penetrante riflessione scientifica e il loro sguardo attento allo stato di salute del nostro sistema di istruzione hanno lasciato in eredità un prezioso scaffale di diagnosi e di terapie formative. La collana di perle pedagogiche è posta sul petto di una Scuola di base dalle nobili identità sociali e culturali. Le citiamo.
Scuola palestra di cittadinanza. La prima perla irradia di luce l’opzione pedagogica per un sistema democratico di istruzione che mai abbassa la guardia dalla sua identità pubblica e gratuita: fondata sul diritto di tutti alla conoscenza.
Sul suo portone d’ingresso si legge a lettere cubitali un inalienabile impegno formativo: garantire a-tutti-gli-allievi, futuri cittadini, il diritto di entrare e di uscire da un ramo del sistema scolastico.
Scuola cattedrale di integrazione. La seconda perla irradia di luce l’opzione pedagogica per un sistema di istruzione che mai abbassa la guardia dalla vocazione assiologica all’integrazione delle diversità: disabili e altre etnie.
Sul suo portone d’ingresso si legge a lettere cubitali un inalienabile impegno formativo: assicurare il diritto al banco nella classe di tutti.
Scuola bottega di conoscenze. La terza perla irradia di luce l’opzione pedagogica per un sistema di istruzione che mai abbassa la guardia dal compito primario di assicurare alle giovani generazioni solide competenze disciplinari e interdisciplinari.
Sul suo portone d’ingresso si legge a lettere cubitali un inalienabile impegno formativo: azzerare i disavanzi e i ritardi cognitivi degli allievi.
Scuola comunità conviviale. L’ultima perla irradia di luce l’opzione pedagogica per un sistema di istruzione che mai abbassa la guardia dalla disponibilità, dalla cooperazione e dalla solidarietà. Possibile, se appronta un “ambiente” di vita comunitaria disseminato di dialogo, di amicizia e di collaborazione.
Sul suo portone d’ingresso si legge a lettere cubitali un inalienabile impegno formativo: facciamo girotondo a Scuola.
PENSIERINO DELLA SERA. Concludiamo con qualche interrogativo. In questi anni d’esordio del Ventunesimo secolo le due Pedagogie (popolare e accademica) saranno ancora in grado di ricondurre al nido le rondini primaverili di fine Novecento? Queste, saranno capaci di battere il ritmo della democrazia-inclusione-conoscenza-convivialità musicata per la Scuola di base di fine Novecento?
Se sì, la Scuola-che-verrà dovrà essere fornita delle risorse necessarie. Ineludibili, se il centro/sinistra intende formare nuove generazioni dalle teste ben fatte e dai cuori solidali: chiamate a seminare valori di democrazia e di cultura lungo i crinali del Ventunesimo secolo.

"Riforma della scuola" n° 16

Leggendo i classici: cultura, merito, competitività.


Giovanni Ghiselli 

Ricorrono frequentemente, accanto a "cultura" e "scuola", le parole "merito-meritocrazia", e "competitività".
Con questo articolo vorrei analizzarle in breve, eppure non senza una prospettiva diacronica che mi permetta di utilizzare i miei autori greci e latini. Temo che le parole in questione abbiano subito un restringimento e un avvilimento semantico. Cercherò dunque di rivendicare e restituire loro la pienezza del significato. Parto dalla più importante.
“Cultura” non è erudizione, ma paideia, bildung, formazione insomma della persona. E' illuminante la distinzione che Euripide fa nelle Baccanti quando scrive: “il sapere non è sapienza” (v. 395).
Non è inutile notare che il “sapere” è designato dal drammaturgo con una aggettivo sostantivato al neutro (sofón), un termine che può evocare lo studio dell’erudito rinchiuso nelle biblioteche, mentre il sostantivo sofía indica la saggezza dell'uomo capace di rispettare e amare la vita, ed è parola  di genere femminile, il che vale a sottolineare il suo sapore di ricchezza mentale feconda, produttiva.
Il sapere non è sapienza, afferma dunque il  primo stasimo delle Baccanti, e procede con l'auspicio di  tenere la mente e l'anima lontane dagli uomini straordinari (vv.428-429).
Ma chi sono gli "straordinari"? Si può rispondere ricordando Delitto e castigo. Gli “straordinari” sono i modelli negativi che Raskòlnikov, il giovane protagonista del romanzo, ricava dalla storia: sono quei presunti superuomini che si considerano al di sopra delle leggi.
 "Gli uomini si dividono in -ordinari- e -straordinari-.Quelli ordinari devono vivere nell'obbedienza e non hanno diritto di violare la legge, perché essi, vedete un po', sono appunto ordinari. Quelli straordinari, invece, hanno il diritto di compiere delitti d'ogni specie e di violare in tutti i  i modi la legge, per il semplice fatto di essere straordinari". Così argomenta il personaggio di Dostoevskij, uno studente povero.
Quindi, per assimilarsi a questi presunti superuomini, il ragazzo giungerà ad un duplice delitto e terminerà in Siberia. Un monito da tenere presente. Se Raskòlnikov guardava a Napoleone come esempio da imitare, ora i modelli pericolosi per tanti sprovveduti sono, ben più meschinamente, i vari Briatore di turno sulla ribalta.
Una buona difesa da tali abbagli che accecano le menti è appunto “la” cultura.
Chi ha la buona abitudine di leggere gli ottimi autori viene spinto a indagare se stesso ( Eraclito), a conoscere se stesso (come prescriveva l'oracolo delfico), a trarre comprensione anche dal dolore (Eschilo), a sviluppare in pieno la propria personalità fino a diventare quello che veramente è (Pindaro). L’abitudine alla lettura, soprattutto per chi proviene da famiglie scarsamente secolarizzate, si prende a scuola.
Bisogna lottare perché la sostanza dell'umanesimo, della cultura, della civiltà, rimanga nelle nostre aule scolastiche. E non solo. In Il giuoco delle perle di vetro, Bildungsroman di Herman Hesse leggiamo queste parole profetiche: "Si sa o si intuisce che quando il pensiero non è puro e vigile, quando la venerazione dello spirito non è più valida, anche le navi e le automobili incominciano presto a non funzionare, anche il regolo calcolatore dell'ingegnere e la matematica delle banche e della borsa vacillano per mancanza di valore e di autorità, e si cade nel caos (.) Erano tempi feroci e violenti, tempi caotici e babilonici nei quali popoli e partiti, vecchi e giovani, rossi e bianchi non s'intendevano più. Andò a finire che, dopo sufficienti salassi e un grande immiserimento, sempre più forte si fece sentire il desiderio di rinsavire, di ritrovare un linguaggio comune, un desiderio di ordine, di costumatezza, di misure valide, di un alfabeto e di un abaco che non fossero dettati dagli interessi dei grandi, né venissero modificati a ogni piè sospinto. Sorse un bisogno immenso di verità e giustizia, di ragionevolezza, di superamento del caos".

Passiamo al “merito”. Questa è una parola che contiene l'idea di reciprocità. Si compie bene un lavoro e se ne ottiene un compenso.
Reciprocità, ovviamente nel bene, non è una brutta parola, come non lo è “contrappasso” nel male.
Nel poema agricolo di Esiodo leggiamo : "a se stesso apparecchia il male l'uomo che lo prepara per un altro, e il pensiero cattivo è pessimo per chi l'ha pensato" (Opere e giorni, vv. 265-266).
Tommaso d'Aquino spiega il contrappasso con queste parole: " Sed haec est forma divini iudicii, ut secundum quod aliquis fecit patiatur" (S. Theol. II, II, 61, 4 3), “ma questo è il sistema del giudizio divino, che uno riceva secondo quello che ha fatto”.
Diffido di chi sbandiera la propria generosità e santità ripetendo di essere uno che fa del bene a tutti senza aspettarsi nulla in cambio. Mi ricorda il sanguinario Riccardo III di Shakespeare, quando, ancora duca di Gloucester, in un breve monologo dice di se stesso che "copre la propria nuda scelleratezza con vecchi scampoli carpiti a casaccio alla Sacra Scrittura e tanto più sembra un santo quanto più fa il diavolo" ( Riccardo III, I, iii).
Il merito dunque merita compenso e vuole essere riconosciuto. La capacità, l’impegno, la lealtà. la generosità sono meritevoli di riconoscimento in termini di onore innanzitutto, poi anche di remunerazione materiale, che non costituisca però una umiliazione di chi ha avuto in dono dal destino talento e volontà inferiori.
Intendo dire che la mercede del merito non deve essere sproporzionata rispetto alle necessità di ogni persona, di ogni famiglia.
Le disuguaglianze colossali sono una negazione della democrazia e della libertà.
La meritocrazia, come la democrazia, dovrebbe escludere la pre-potenza che appartiene alla gamma dei significati della parola kratos. Merito massimo, soprattutto nel caso dell'uomo politico, è impiegare le proprie capacità per il bene della comunità. Governare, amministrare deve essere un servizio reso alla comunità, non una fonte di lucro individuale e colossale. Minister deve essere uno che compie un servizio.
Meritevole, e davvero morale, è il servizio che si rende favorendo la vita, la propria e quella degli altri.
Concludo con la “competitività”. Esiodo la chiama Eris e distingue quella buona da quella cattiva
Buono è lo spirito di emulazione che, posto alle radici della terra (Opere e giorni, 19), ossia alla base del progresso umano, spinge a migliorarsi continuamente, a fare sempre meglio.
Da biasimare è invece l’Eris che “fa crescere la guerra e la contesa funesta” (v. 14), ossia la competizione che tira a pre-potere.
Qualcuno potrebbe obiettare che senza reciprocità, senza compenso, senza competitività non vi è motivazione. Rispondo che la spinta più forte ad agire viene dal constatare che le nostre azioni contribuiscono al bene comune oltre che al nostro.
Tanti giovani, ben lungi dall'essere fannulloni, e pure tanti non giovani provano questo nobile desiderio.
E' nell'incrocio fra il voler acquisire sapere e la soddisfazione di trasmetterlo che si sostanzia, da sempre una ricompensa reciproca fra l'allievo e il docente. Chi non lo sa? Eppure è un dato che sembra smarrito.

“Riforma della scuola” n°16

Aprea, ex


D.F, G.S

Le manifestazioni studentesche culminate, per ora, nella giornata del 14 Novembre hanno preso a bersaglio, come era facilmente prevedibile,  il cosiddetto “disegno di legge Aprea”. In realtà il testo, cui si è giunti con un' intenso lavoro parlamentare alla Camera, ha poco a che fare coll'originaria proposta Aprea.
E’ cambiata l’anima del provvedimento originario. Da una visione che mutuava una visione aziendalista si è giunti ad una visione più simile a quella della comunità educante.
Se si crede alla autonomia scolastica (e sappiamo che non tutti ci credono) gli OO.CC devono avere strutture e funzioni che garantiscano alle scuole piena funzionalità.
Sicuramente quelli attuali non funzionano e alcuni esistono solo sulla carta, con composizioni non rinnovate da molti anni (praticamente solo i consigli di Istituto hanno un regolare o quasi regolare funzionamento), ma mettere mano ad essi richiederebbe un adeguato coinvolgimento del mondo della scuola che garantisca livelli elevati di condivisione. 
Bisogna chiedersi se vi siano la possibilità e l'opportunità che, a fine legislatura, si produca una legge sugli OO.CC.
Certamente il passaggio al Senato è necessario avvenga con una vasta consultazione di tutte le componenti   del  mondo della scuola.

Il testo comunque appare ancora disomogeneo, il che segnala progressivi rimaneggiamenti che tolgono unitarietà al testo, e anche con punti critici. Si decide di intervenire unicamente sugli organi interni della scuola, rimane
incerta la struttura a rete di rapporto con le altre scuole, poco considerati gli Enti Locali e le forze sociali del territorio.
La visione privatistica dell'originaria Aprea le portava, in modo inaccettabile, “dentro” la governance degli Istituti, ora non vengono delineate modalità adeguate di interfaccia e collaborazione.

I punti critici.
Dipendono, nella maggior parte, dalle norme sulla autonomia statutaria,

- la formulazione in essere è eccessivamente destrutturata e potrebbe configurare possibili scenari troppo diversificati che non garantiscano elementi minimi di unitarietà del sistema nazionale.
Quantomeno parrebbe opportuno un riferimento a linee guida da emanare da parte del ministero utili a definire profili standard di funzionalità, composizione, procedure.

-libertà di insegnamento. Sembra che sia sottesa una preoccupazione che gli OO.CC possano vincolarla.
Questo tema è delicatissimo, perché può determinare una ambiguità nella concezione del lavoro, tra attività dipendente pubblica e attività di tipo libero professionale.
La risposta sta nella esatta definizione delle responsabilità del lavoro docente nella vita della scuola, come per la valutazione che deve chiaramente spettare al consiglio di classe nella configurazione dei soli docenti., più che nella definizione del carattere generale del lavoro degli insegnanti.

-I Genitori e gli studenti. I Genitori mantengono l'espressione della Presidenza, ma non vi sono precise previsioni di organismi di diretta organizzazione e rappresentanza ne dei genitori, ne degli studenti, del tutto rimandate all'autonomia del singolo istituto.

-Il rapporto col gli EE.LL e le Regioni va considerato attentamente. La legge, nella sostanza, non affronta il tema. E' necessaria una precisa intesa sul testo di legge con le Regioni, in particolare sulle parti che indicano loro compiti e competenze, e sulla Conferenza ipotizzata, che potrebbe essere un valido strumento.

-Infine il nocciolo, ciò che fa più discutere. E' fin troppo sfumata la questione della partecipazione di esterni. Al termine di plurime riscritture risulta confusa la questione di chi può  conferire risorse (vengono citate solo le Fondazioni) e la possibilità delle forze sociali di partecipare alla vita della scuola. 

Chi scrive non è contrario all'afflusso di risorse private a sostegno della scuola pubblica. Già avviene, su progetti, in qualche modo è sempre avvenuto. Ma non è solo l'ignoranza delle questioni a determinare tanta avversione fra insegnanti e studenti. Forse sarebbe diverso se si partisse con il definire la struttura di un Istituto scolastico avendone chiari i compiti: una scuola inclusiva e moderna, che crede nella libertà ed autonomia della cultura ma che è innervata nel territorio dove opera. Allora la definizione di piani pluriennali di offerta formativa, garantiti da figure direttive presenti e non rarefatte per plurime responsabilità, in scuole di dimensioni “comprensive” ma non troppo estese, in un saldo rapporto con gli Enti locali, permetterebbe rapporti con i privati, di reciproca soddisfazione e senza né sudditanza né ritrosie burocratiche.


"Riforma della scuola" n°16

Ragionare nuovo. Oltre la meritocrazia.



Giovanni Fioravanti

A maggio di quest’anno è uscito, per la Garzanti, Italia, cresci o esci di Roger Abravanel, ingegnere, manager e consulente aziendale di varie multinazionali, autore nel 2008, sempre per Garzanti, del libro Meritocrazia: Quattro proposte concrete per valorizzare il talento e rendere il nostro paese più ricco e più giusto. Abravanel ha pure un sito internet www. meritocrazia.com introdotto dall’asserzione “Il cambiamento in senso meritocratico della societa' non arrivera' dall'alto, ma dipendera' dalla volonta' di tanti nostri concittadini di farsi apertamente e trasparentemente Campioni del merito”..
Si tratta del pensatore di riferimento al quale durante il suo nefasto dicastero la ministra Gelmini, dopo le deludenti performance dei quindicenni italiani all’OCSE Pisa del 2006,  affidò il progetto nazionale PQM acronimo di Piano Nazionale per la Qualità e il Merito, di valutazione degli studenti e della qualità dell’insegnamento nella scuola secondaria di primo grado. Nella conferenza stampa di illustrazione del piano nazionale la ministra e l’ingegnere dichiaravano la volontà di puntare sulla qualità dell’insegnamento piuttosto che sulla quantità a sostegno dell’idea che solo la meritocrazia negli studi può fungere da volano per l’economia del nostro paese. A giudicare dal numero scarsamente rilevante delle classi di scuola medie che vi hanno aderito e dalla esiguità dei fondi nazionali messi a disposizione delle scuole, sembrerebbe che il PQM serva soprattutto all’obiettivo di far emergere  quali sono gli studenti già dotati di loro, a prescindere dalla qualità della scuola ed evitare nel contempo che la nostra scuola, così come è, li possa guastare.
Sì, perché queste ragazze e questi ragazzi  esistono nonostante la scuola e non è difficile che la prassi quotidiana delle nostre aule finisca per mortificarli, quando addirittura demotivarli. Prendiamo uno studente delle nostre superiori. Perché dovrebbe essere motivato a dare il meglio di sé, a vincere le competizioni nazionali e internazionali, a entrare nell’albo nazionale delle eccellenze?  Cosa significa per uno studente delle superiori conquistare all’esame di stato 100 con lode, quando questo ormai per l’accesso alle facoltà universitarie è ininfluente, segnando così la condizione di grave distanza e scollamento tra sistema formativo scolastico e università. Quando per conseguire il cento e la lode bisogna aver totalizzato nell’ultimo triennio il massimo di credito scolastico, conseguito il massimo di punteggio alle prove scritte e orali dell’esame e siccome, a proposito di merito, questo non è sufficiente, con il regolamento Gelmini  occorre aver ottenuto negli scrutini finali relativi alla terzultima, penultima e ultima classe solo voti uguali o superiori a otto decimi in ogni disciplina, compresa l’educazione fisica e compreso il comportamento. Un percorso ad ostacoli, alla faccia del merito! E qual è il ritorno economico per chi giunge al traguardo del cento e lode? la stratosferica somma di 600 euro tassati alla fonte!
Altroché choosy, altroché merito e competizione, le ragazze e i ragazzi che nelle nostre scuole si affermano, spesso riconosciuti e stimati dai loro compagni e dalle loro compagne, credono a quello che fanno, credono che lo studio e la riuscita siano valori in sé neppure parenti con le filosofie dell’ingegner Abravanel. Tralascio il capitolo della partecipazione dei nostri studenti alle competizioni nazionali dalle olimpiadi di matematica ai certamen latinum. Gli studenti che si affermano a livello di istituto, poi a livello provinciale e quindi, dopo queste selezioni, partecipano alle gare nazionali, non sono in minima parte esonerati dal peso scolastico comune a tutti i loro compagni, anzi a questo devono aggiungere l’impegno per le competizioni nazionali, senza che sia loro concesso qualche sollievo dalla routine scolastica e dalle interrogazioni.  Questa è la flessibilità del nostro sistema scolastico, questa è la considerazione per chi dimostra di avere una qualche marcia in più. Nei nostri istituti  non c’è espressione d’ orgoglio nell’ avere simili ragazzi. Non c’ è assolutamente la capacità di far crescere negli studenti il senso di appartenenza alla loro scuola, di comunicare da parte dei dirigenti e degli insegnanti la soddisfazione della scuola ad avere tra i propri alunni risorse così preziose come i migliori tra loro.
In coda a tutto ciò sarebbe interessante sapere quante sono le imprese che nel nostro paese per assumere attingono o almeno consultano l’albo dell’eccellenze del MIUR. Forse non è il caso di approfondire, considerato il tasso di disoccupazione giovanile al 39,3%, con il 23% di ragazzi tra i 15 e i 29 anni che sono neet, con un tasso di dispersione scolastica del 18%, ancora molto lontano dall’obiettivo 2020 di una percentuale inferiore al  10%, ma anche dalla media europea del 13,5%.
Ma è chiaro che il discorso della meritocrazia non viene dal nulla. E’ il volto buono del neoliberismo, è il volto buono della scuola di Chicago, degli Zingales di Fermare il declino, dei teorici del mercato meritocratico. Non credo valga la pena cadere nella trappola di una discussione alla fine oziosa su merito, meritocrazia e quant’altro.
In un paese in crisi, ragionare nuovo sarebbe davvero necessario e urgente. Purtroppo, proprio di questo, in giro c’è una grande carenza.
Sarebbe opportuno che intanto apprendessimo l’arte di considerare ogni individuo, ogni singolo individuo che viene al mondo come una risorsa fondamentale per la nostra società e per il suo futuro, sulla cui vita vale la pena investire al di là di ogni discorso ammuffito e stantio sulla morte o meno dell’umanesimo e della cultura umanistica, o della scuola com’era quando si poteva tranquillamente insegnare ex cathedra. E’ il caso di ricordare le conclusioni, più volte poi riprese negli anni successivi, del Consiglio europeo di Lisbona del 23 e 24 marzo del 2000, in cui si ribadisce che le persone costituiscono la risorsa più importante dell’Europa.
Restituire, dunque, centralità al valore di ogni singolo individuo, di ciascuno. Se non si parte da questo, da uno Stato in grado di garantire questo per tutti  e non solo per alcuni, ogni discorso sul merito suona fesso. E in questo la scuola e il sistema formativo nel loro complesso svolgono un ruolo fondamentale.
La scuola è per i più un luogo talmente ordinario della nostra vita che spesso scivola via tra le tante routine quotidiane. Eppure i nostri figli ogni anno impiegano, direi investono, sui banchi di scuola almeno mille ore della loro vita, non sono uno scherzo, è il loro capitale che si moltiplica anno dopo anno di scuola, un capitale di tempo che impiegano perché il futuro che sognano per sé non resti un sogno, ma si traduca in un autentico progetto di vita personale. Ma noi adulti ci rendiamo conto della responsabilità che abbiamo nei confronti di questo capitale? Un investimento fatto di ore, di giorni, di settimane, di anni scolastici che i nostri giovani impegnano nelle aule degli istituti scolastici italiani, la responsabilità che abbiamo di non sprecarne neppure una minima parte, di non bruciarlo, che sarebbe cosa gravissima e irresponsabile, di riempirlo della qualità migliore della conoscenza e dei saperi? Ecco la sfida che si apre ogni anno scolastico che inizia, non tanto e solo sulla riuscita dei nostri ragazzi, ma sulla nostra riuscita di adulti che portano la responsabilità della loro crescita, - crescere significa etimologicamente creare se stessi - di tenere alta la qualità del loro tempo scuola, di non bruciarlo, di far fruttare in conoscenze e competenze il tempo di vita che bambine e bambini, ragazze e ragazzi sacrificano sui banchi di scuola per quello studio necessario a rendere reali i sogni accarezzati da ognuno.
Io vorrei che di questa responsabilità noi adulti genitori, noi adulti che lavoriamo nella scuola rendessimo ogni anno conto ai nostri ragazzi, al Paese a cui la scuola appartiene.
Allora è tempo che la generazione degli adulti, che i  docenti, gli amministratori, lo Stato sentano tutto il peso e la portata della responsabilità che hanno nei confronti delle bambine e dei bambini, delle ragazze dei ragazzi di non sprecare, di non bruciare nulla di quel tempo di vita a loro sottratto davanti alle cattedre e alle lavagne, che sentano il dovere etico di rispondere pienamente di come esso a scuola viene impiegato e della qualità dell’istruzione che giorno dopo giorno viene loro impartita.
Esiste un interesse che è all’origine dello Stato democratico, quello, cioè, di  considerare ogni individuo che lo compone come una risorsa, per cui la piena realizzazione di quella “singola risorsa” non può che tradursi nel concreto interesse dello Stato stesso e della sua democrazia. Ogni individuo, quindi, costituisce di per sé una risorsa per la società e la fortuna di quella società dipende dal destino di ciascuna delle sue risorse umane.
Se il successo della società è pertanto affidato all'esito dell'apporto di ciascun individuo, in questa ottica gli individui non sono solo portatori di interessi, ma prioritariamente costituiscono le risorse su cui fondare l’esistenza democratica di uno Stato.
Presentata in questo modo la questione, accanto al diritto inalienabile all’istruzione di cui ogni individuo è portatore, non può che sussistere l’interesse dello Stato, quale espressione della comunità sociale, a investire in saperi sulle persone, su ogni singolo individuo che ne costituisce la preziosa  risorsa da cui muovere per progettare il futuro politico e sociale di quella stessa comunità, facendo in modo che il sapere, prima di essere considerato come un requisito, se mai da valutare con un voto, sia considerato un diritto da promuovere, tutelare e implementare al pari delle stesse libertà.
Per cui anziché porre l’enfasi sul merito, sulla competizione,  sulla riuscita scolastica o meno di ogni singolo alunno e organizzare il sistema dell’istruzione in funzione di tutto questo, l’enfasi, il merito e la competizione dovrebbero essere prioritariamente collocati nella riuscita dello Stato e del suo sistema scolastico a perseguire il successo formativo di ogni singola alunna e di ogni singolo alunno, ognuno assunto come risorsa su cui investire per l’avvenire economico, culturale e sociale dello Stato stesso, facendosi pienamente carico del valore del tempo di vita di ogni bambina e bambino, di ogni ragazza e ragazzo, al contempo rispondendo della qualità delle conoscenze trasmesse e della qualità del futuro su cui ognuno può contare, avendo accanto uno Stato amico, portatore dell’interesse per l’istruzione di ciascuno come interesse generale e collettivo.

"Riforma della scuola" n° 16

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