Andrea Ranieri
La parola “meritocrazia” fu coniata
da un sociologo inglese laburista Michael Young agli inizi degli anni
’50. Il libro “L’origine della meritocrazia” fu pubblicato in
italiano dalle edizioni di Comunità, di Adriano Olivetti.
E’ un libro di fantasociologia, in
cui, dopo aver all’inizio fatto l’elogio del termine contrapposto
alle varie aristocrazie e gerontocrazie dominanti, mostra le
assurdità di una società in cui ricchezza e potere vengono
distribuiti sulla base dei risultati scolastici e ancor peggio dei
quozienti di intelligenza.
La casta che ne deriverebbe, secondo
Young, sarebbe ancora più chiusa, impermeabile, escludente, delle
vecchie caste a cui si contrappone.
In particolare la scuola finirebbe per
rendere la selezione sempre più precoce concentrando sui pochi le
eccellenze educative, ed aumentando a dismisura la selezione e la
dispersione di quanti non si adeguano agli standard di intelligenza
dagli stessi “intelligenti” definiti.
Sarebbe l’ora di restituire
l’onore-magari ripubblicando il suo libro- a questo vecchio
laburista, fiero avversario del blairismo, della progressiva
acquiescenza della sinistra al pensiero unico neoliberista, e fatto
passare da morto, grazie al titolo del suo libro più importante,
”The rise of meritocracy”, uscito nel 1958, quasi come un
anticipatore dello stesso, il precursore, attraverso la scoperta
della meritocrazia, di una società in cui i valori del mercato e
della competizione avrebbero impregnato di sé ogni aspetto della
vita sociale, a cominciare dall’istruzione.
Fra i meritocratici italiani
“riscopritori” di Young spicca indubbiamente Roger Abravanel, una
grande carriera in Mc Kinsey, e autore nel suo “Meritocrazia” di
una lettura di Young che oscilla fra l’incomprensione e la
usucapione arbitraria del termine e del pensiero del nostro. Non c’è
da stupirsi più di tanto, perché operazioni di questo tipo non le
fanno solo i consulenti alla moda, ma anche l’Accademia.
Basta affacciarsi ad un manuale di
marketing per imbattersi nell’”effetto Veblen”, che si ha
quando l’aumento di prezzo di certi beni, anzi che scoraggiare il
consumatore, ne aumenta l’appetibilità e lo smercio. E Thorsten
Veblen che già nel 1899 aveva messo a nudo il “consumo vistoso”
come l’indicatore del prevalere della rendita e della
speculazione, della ricchezza senza lavoro e senza intelligenza, una
sopravvivenza dell’arcaico istinto di rapina nelle classi agiate
della società, e un modo perverso e assolutamente attuale per far
sognare ai poveri i sogni dei ricchi, viene presentato ai nostri
giovani come l’inventore della più raffinata e postmoderna tecnica
di marketing. Il pioniere dell’economia esperienziale.
Del resto ci aveva avvertito Walter
Benjamin. “Se vincono loro nemmeno i nostri morti sono al sicuro”.
Ed è indubbio che per lungo tempo il “loro” pensiero, quello che
fa del mercato l’alfa e l’omega non solo delle transazioni
economiche ma anche delle relazioni sociali e degli ambiti di vita,
ha vinto, trascinando con sé anche gran parte della sinistra,
trascinata dai “vincenti” Bill Clinton e Tony Blair.
John Goldthorpe e Michelle Jackson in
un saggio del 2008, pubblicato in Italia da Stato e mercato, hanno
giustamente indicato in Daniel Bell e nei “liberal della guerra
fredda” gli autori della traslazione del termine meritocrazia da
negativo a positivo.
La meritocrazia è, per Bell, una
caratteristica fondamentale dell’era postindustriale. Il merito
scolastico avrebbe dovuto diventare la griglia fondamentale
attraverso cui si selezionavano i quadri e i tecnici più efficienti
di cui la nuova economia e la nuova società avevano bisogno, e il
merito scolastico avrebbe dato una nuova giustificazione morale alle
inevitabili disuguaglianze di reddito e di agiatezza. In questo
quadro la meritocrazia diventa un argine contro posizioni liberal più
radicali, che puntavano ad una progressiva uguaglianza non solo delle
opportunità, ma anche degli esiti, e che trovavano una base teorica
e filosofica nelle Teoria della giustizia di John Rawls.
Adire il vero per Bell la meritocrazia
stava dentro una evoluzione in cui le disuguaglianze sarebbero
diminuite, per via del peso crescente che avrebbero assunte le
decisioni politiche, prima di tutto proprio sul terreno della
conoscenza, nell’economia post industriale. Quali fortune abbiano
avuto queste “previsioni” è sotto gli occhi di tutti.
Resta il fatto che la istruzione assume
il ruolo di leggittimatore in ultima istanza delle disuguaglianze,
con una radicale inversione di senso rispetto ai classici
dell’illuminismo( Condorcet), ma anche rispetto ad Adam Smith, per
cui il compito fondamentale dell’istruzione pubblica era il
contrastare proprio il formarsi e il consolidarsi delle
disuguaglianze, l’estendersi puro e semplice del mercato alla
società tuta intera.
G. e J. nel saggio citato mettono a
nudo una grande contraddizione della meritocrazia. Quella di cioè
di volere essere una giustificazione etica delle disuguaglianze nella
società di mercato, e al tempo stesso di aver bisogno per affermarsi
di uno Stato fortissimo, capace di contrastare alla radice le
condizioni di maggior favore dovute alla nascita e al censo.
Che del resto è un punto centrale
dello stesso libro di Young. Abolizione secca della trasmissione
ereditaria delle ricchezze, chiusura di tutte le scuole private,
anticipazione sempre più precoce, e rigidamente subordinata ai
quozienti di intelligenza, delle differenti carriere scolastiche e
lavorative. E uno Stato costretto ad intervenire contro il traffico
del DNA, man mano che i progressi dell’eugenetica- che della
meritocrazia è corollario- permettono di prevedere, fin dal grembo
della madre, le attitudini al sapere e al comando dei nascituri.
Del resto se vogliamo trovare nel mondo
moderno i mondi che più hanno distribuito prestigio e potere sulla
base del merito scolastico- sono sempre G. e J. A dircelo- bisogna
fare riferimento ai Paesi del socialismo “reale”, e oggi
probabilmente alla Cina, fatte salve le prerogative intangibili delle
alte burocrazie di Partito, la cui preoccupazione di come trasmettere
potere e ricchezza ai figli sembra del tutto omologa a quelle dei
ricchi della società capitalistica. Una bella contraddizione
comunque per chi ha inventato la meritocrazia per giustificare le
disuguaglianze nel capitalismo liberista.
Ma di Stato ci sarebbe anche bisogno a
valle del processo formativo, perché le imprese dovrebbero tener
conto dei risultati della scuola e dell’Università per distribuire
posizioni professionali e potere. Cosa inconcepibile per un classico
del liberismo come Hayek, che la liquidò in due scritti del 1970 e
del 1976 sostenendo che in un’economia di mercato spetta ai datori
di lavoro e solo a loro valutare il merito e il potenziale produttivo
dei loro dipendenti. E sulla base di parametri quali l’attitudine
al comando, la capacità di stabilire relazioni, il fiuto per tutto
ciò che si può tradurre in denaro, insomma “quel certo non so
che”, che si acquisisce più facilmente nelle “buone famiglie”
che nella scuola e nell’Università. Ma, obiettano i meritocratici
contemporanei, se, nell’economia della conoscenza, non si dà
spazio al merito si fallisce. Appunto, si fallisce alla grande come
dimostra la crisi finanziaria in corso, in cui quelli dei piani alti,
circondati da tanti giovanotti addestrati a tradurre merito in denaro
e potere, hanno ignorato ogni elemento di conoscenza che potesse
mettere in discussione le loro posizioni di comando e le loro
ricchezze, portando alla rovina le loro società e la vita di milioni
di persone. Perché, è Manuel Castells a dircelo, nel mondo presente
“le tecnologie del potere” mettono sistematicamente in scacco “il
potere delle tecnologie.
La base etica della etico della
meritocrazia si fonda sulla capacità di promuovere l’uguaglianza
delle opportunità, per permettere a tutti di competere ad armi pari
nella scuola e nel mercato del lavoro, così da rimettere in
movimento il famoso ascensore sociale. In termini come vedremo
radicalmente diversi è stato questo un tema centrale della
pedagogia democratica, che nasce proprio dal porsi la domanda se sia
proprio vero che i figli della povera gente siano più stupidi di
quelli dei signori, come i risultati scolastici facevano pensare.
Nacque da lì l’esperienza di Barbiana, e dei tanti doposcuola
popolari che anticiparono il ’68, e delle prime esperienze di tempo
pieno a Torino, dove i figli degli operai immigrati venivano
sistematicamente bocciati alle elementari.
Ma per farlo misero in atto percorsi
educativi che si scontrarono contro la meritocrazia tradizionale
della scuola italiana. Per scoprire la conoscenza nei luoghi di
lavoro e di vita degli operai e dei contadini, per valorizzare il
sapere che c’è nelle mani e nelle orecchie, nella musica e nei
colori, nella memoria storica dei loro padri e dei loro nonni.
“Perché se il sapere è solo quello dei libri, chi ha tanti libri
a casa sarà sempre più avanti di chi i libri non li ha mai visti”.
E arrivarono anche ai libri partendo da lì, dall’esperienza di
vita dei loro quartieri e dei loro paesi, imparando che quelli come
loro erano tanti nel mondo, e che tutti assieme si poteva dare
dignità e speranza a quelli che le scuole di tutto il mondo
mettevano ai margini e bocciavano.
La motivazione allo studio e
all’impegno non era quella di prendere l’ascensore per uscire da
soli dalla propria classe, ma quella di crescere tutti assieme dando
valore alle capacità, che è cosa ben diversa dal merito, che tutti
possiedono, e che la scuola deve far emergere e valorizzare.
Questa cultura
cambiò la scuola italiana, soprattutto quella dell’infanzia e
delle elementari. Produsse un nuovo sapere pedagogico. Tra il John
Dewey di “Scuola e democrazia”, e Howard Gardner e la teoria
delle molte intelligenze. Un sapere che dura, e che fa si che la
nostra scuola primaria, nonostante i tagli, sia ancora oggi-persino
nelle analisi PISA- una delle migliori del mondo, e le nostre maestre
siano probabilmente le persone che meglio hanno saputo affrontare,
nel disinteresse dei Ministeri e nella distrazione dell’Accademia,
il mondo che ci arrivava in casa con le migrazioni.
Ma quel sapere pedagogico perdeva colpi
man mano che si saliva, che si passava dalla scuola
dell’apprendimento a quella delle discipline, in cui la conoscenza
si specializza e si frantuma in un numero assolutamente spropositato
di insegnamenti- un record rispetto agli altri Paesi europei, e
l’individualismo di chi insegna, di chi impara e delle loro
famiglie, prende il posto della condivisione e della cooperazione. Ma
questo non migliora il “merito”. Secondo le analisi PISA che
appunto il merito intendono misurare, i bambini italiani che a 9 anni
sono fra i migliori del modo, precipitano a 15 agli ultimi posti
della graduatoria.
Furono in fin dei conti ragioni
“meritocratiche” quelle che fecero saltare la più sensata delle
riforme proposte da Luigi Berlinguer, quella del ciclo unico di base,
che doveva unificare scuola elementare e medie “inferiori” con un
progetto educativo coerente e senza salti.
“Si prolunga l’infanzia”. “Si
ritarda il momento in cui i migliori possono emergere”. “Si
declassa il sapere disciplinare degli insegnanti delle medie”.
Furono le ragioni opposte ad un progetto che intendeva far “salire”
la qualità pedagogica della scuola italiana, fecondando con i valori
della cooperazione, con l’attenzione alle diverse intelligenze,
tipiche della nostra scuola primaria, anche i livelli più alti
dell’istruzione.
E “meritocratiche” sono le ragioni
che hanno coperto le misure che negli ultimi anni hanno segnato il
progressivo disinvestimento sulla scuola, dal maestro unico nelle
elementari, alla drastica riduzione del tempo pieno, alla progressiva
disattenzione verso gli alunni portatori di handicap.
E pur tuttavia dagli anni 60 in poi si
assiste ad un straordinario aumento dei livelli dei livelli di
istruzione e dei livelli di apprendimento dei figli delle classi più
svantaggiate. Le ricerche in merito ci dicono che in Italia e non
solo le probabilità di raggiungere i livelli di apprendimento più
alti –gli A-level- cominciano a dipendere meno dal reddito
delle famiglie di provenienza. Le nuove consapevolezze pedagogiche
che si fanno largo nella scuola italiana- e che ne permeano tutti i
livelli, anche quelli dove è più difficile- sono contestuali ad un
innalzarsi progressivo dei livelli di reddito e di consapevolezza
della propria dignità e del proprio valore della classe operaia e
degli strati sociali più svantaggiati.
I la voratori chiedono più sapere non
solo per i propri figli ma anche per se stessi. In Italia si sviluppa
l’esperienza delle 150 ore, in cui il sapere non è inteso come una
modalità per uscire dalla propria classe, ma per aumentare la
propria capacità di conoscere e controllare il ciclo di produzione e
di riproduzione sociale, ma anche per leggere libri, per andare a
teatro, per sentire musica, per rendere più ricca la propria vita.
Per prendere l’ascensore tutti insieme, e migliorare tutti insieme
la propria condizione di vita.
“L’operaio che vuole il figlio
dottore” è lo stesso operaio che si impegna, con la lotta
sindacale e con lo studio, a rendere più dignitosa e libera la sua
stessa vita.
Da un punto di vista più generale
quelli sono gli anni che vedono aumentare in tutto l’Occidente
quella che gli economisti e i sociologi chiameranno classe media, che
è quella parte della popolazione che sta in mezzo tra la parte della
popolazione più ricca e quella più povera.
Poi succede che dagli anni ottanta in
poi gli stessi testi standardizzati di apprendimento ci dicono che i
livelli dei ragazzi provenienti dalle classi più svantaggiate
ricominciano a peggiorare, in Italia e in gran parte dell’Occidente.
Ce lo dicono Goldthorpe e Jackson nella loro ricerca, ce lo conferma
un insospettabile come Carlo Cipollone, un economista passata dalla
Banca d’Italia alla valutazione dei sistemi educativi in Italia e
nel mondo, proprio ragionando sui dati forniti da G. e J. Ed è
difficile non correlare questo dato con il fatto che le
disuguaglianza tornano a crescere, con la finanziarizzazione
dell’economia, con la deindustrializzazione, con la crescita
dell’immigrazione confinata nei lavori più poveri e neri. Richard
Sennet, nel suo ultimo libro “Insieme”, ci fa vedere come
l’attitudine a cooperare e il riconoscimento della diversità delle
intelligenze e delle capacità, che è stata il fattore fondamentale
della crescita di opportunità di apprendimento per i più
svantaggiati, sia in stretta correlazione con l’indice di Gini, che
misura il livello di disuguaglianza dei diversi paesi. E oggi
l’indice di Gini quasi ovunque registra l’aumento della
disuguaglianze.
E l’ascensore sociale si blocca
ovunque, sia in senso collettivo che individuale. Federico Rampini, a
cui il vivere a lungo negli USA ha finalmente aperto gli occhi sulla
natura e sugli effetti sociali del liberismo, documenta nel suo
ultimo libro, volto a spiegare la falsità del luogo comune “Non ci
possiamo più permettere uno Stato sociale”, nella collana che
l’editore Laterza sta dedicando a demistificare i tanti “idola”
di questo tipo, come, per effetto di anni di politiche
deregolatorie, la classe media si stia rapidamente contraendo, e di
come contestualmente diminuisca la possibilità dei giovani delle
classi più basse di laurearsi e di trovare, se laureati, un lavoro
che dia un reddito superiore a quello dei loro padri, o di trovare un
lavoro qualsiasi.
Il prestito d’onore, uno strumento
che i meritocratici amano tanto perché denota responsabilità
personale ed evita l’aborrito intervento dello Stato, sta per
creare una bolla finanziaria simile a quella dei mutui sub prime
per l’acquisto delle case, dal momento che chi lavora poco e male
ha qualche difficoltà a restituire prestiti sempre più alti e
sempre più onerosi. I giovani americani vedono così anticipata la
fase in cui assumono la condizione di debitori, che è quella verso
cui spinge la maggioranza delle persone un sistema economico e
sociale che ha la pretesa di farci guadagnare di meno e farci
consumare di più. E mandare anche i figli all’Università. Non è
azzardato prevedere una contrazione del numero dei giovani che
all’Università si iscriveranno. In Italia sta già succedendo,
risolvendo verso il basso il paradosso di un Paese che ha insieme il
minor numero di laureati e ricercatori dei Paesi “sviluppati” e
il più alto numero di laureati e ricercatori che non lavorano o
lavorano poco e male.
Abravanel, nel libro citato,
contrappone alla disuguaglianza statica, quella che misura il
rapporto tra la ricchezza dei più ricchi e quella dei più poveri,
la disuguaglianza dinamica, quella che valuta la crescita dei singoli
individui nel loro ciclo di vita. Un concetto che ha trovato ampia
eco nella stessa politica della sinistra italiana e non solo. Walter
Veltroni lo diceva più o meno così: il problema per noi non sono i
ricchi, ma i poveri. In realtà tutto ci dimostra che il crescere
dell’uguaglianza statica aumenta drasticamente la stessa
disuguaglianza dinamica, e riduce la possibilità di ascesa sociale
dei giovani provenienti dalla parte povera della popolazione.
In estrema sintesi mi pare che si possa
dire che l’ascensore individuale funziona solo quando funziona
anche l’ascensore collettivo, quello che misura il crescere in
termini di reddito e di consapevolezza delle classi più
svantaggiate, e si riduce la disuguaglianza. E che la scuola ha
saputo aumentare le opportunità dei ragazzi poveri di crescere
quando ha messo in atto modalità educative cooperative e di
contrasto all’individualismo competitivo.
E pur tuttavia c’è un punto su cui i
meritocratici hanno ragione. Il crescere dell’importanza delle
conoscenza per lo sviluppo delle nazioni e delle imprese. Siamo
davvero dentro l’economia e la società della conoscenza, o per
meglio dire del capitalismo cognitivo, per prendere le distanze da
quelle letture che vedono in essa la fine di orni contraddizione
basata sulla proprietà, sul reddito, sul potere.
La contraddizione dentro cui già siamo
e che diventerà sempre più rilevante negli anni che verranno, e
Young la anticipava con grande lucidità, è fra quelli che pensano e
operano perché il sapere e il potere siano nelle mani dei pochi, più
o meno meritevoli, nelle imprese, riproducendo anche di fronte al
cambiamento tecnologico le ben consolidate catene di comando del
taylorismo, nei territori, nelle nazioni. E chi pensa invece che essa
può essere una grande occasione per far crescere le capacità di
tutti, di scoprire e valorizzare il sapere che c’è in qualsiasi
lavoro, delle mani e della mente, di affermare il carattere di bene
comune della ricerca e della cultura, come requisito fondamentale di
uno sviluppo che voglia essere socialmente e ambientalmente
sostenibile. Come grande occasione per riconnettere le idee di
libertà e di uguaglianza.
E’ evidente da che parte stanno i
meritocratici. Del resto il sociologo pazzo di Young, quello che in
prima persona tesse l’elogio della meritocrazia, così pazzo da
farne l’elogio nella tumultuosa assemblea di Peterloo in cui il
popolo decide di averne le palle piene di questa faccenda, e che
perderà la vita nei tumulti conseguenti, ci spiega che evitare
l’ascesa collettiva e l’uguaglianza è uno dei compiti primari
della meritocrazia. Se assicureremo ai più intelligenti della classe
operaia di salire nella scala sociale, priveremo di intelligenza il
sindacato e i partiti che la rappresentano, convinceremo i più
svegli di loro che è meglio investire su se stessi che sulla
crescita collettiva di chi rappresentano o potrebbero rappresentare.
Forse questa è la parte della profezia che si sta avverando, anche
se in forme un po’ diverse da quelle ipotizzate da Young. Dentro la
politica, più che fuori dalla politica, che sempre più ò
diventata, anche a sinistra, un modo per cambiare la propria vita e
la propria condizione sociale. E anche qui, come per i padroni di
Hayek, più che per il merito e le competenze, conta “quel certo
non so che” che ha che fare con il potere e con l’arbitrio.
“Riforma della scuola” n°16