martedì 20 novembre 2012

Leggendo i classici: cultura, merito, competitività.


Giovanni Ghiselli 

Ricorrono frequentemente, accanto a "cultura" e "scuola", le parole "merito-meritocrazia", e "competitività".
Con questo articolo vorrei analizzarle in breve, eppure non senza una prospettiva diacronica che mi permetta di utilizzare i miei autori greci e latini. Temo che le parole in questione abbiano subito un restringimento e un avvilimento semantico. Cercherò dunque di rivendicare e restituire loro la pienezza del significato. Parto dalla più importante.
“Cultura” non è erudizione, ma paideia, bildung, formazione insomma della persona. E' illuminante la distinzione che Euripide fa nelle Baccanti quando scrive: “il sapere non è sapienza” (v. 395).
Non è inutile notare che il “sapere” è designato dal drammaturgo con una aggettivo sostantivato al neutro (sofón), un termine che può evocare lo studio dell’erudito rinchiuso nelle biblioteche, mentre il sostantivo sofía indica la saggezza dell'uomo capace di rispettare e amare la vita, ed è parola  di genere femminile, il che vale a sottolineare il suo sapore di ricchezza mentale feconda, produttiva.
Il sapere non è sapienza, afferma dunque il  primo stasimo delle Baccanti, e procede con l'auspicio di  tenere la mente e l'anima lontane dagli uomini straordinari (vv.428-429).
Ma chi sono gli "straordinari"? Si può rispondere ricordando Delitto e castigo. Gli “straordinari” sono i modelli negativi che Raskòlnikov, il giovane protagonista del romanzo, ricava dalla storia: sono quei presunti superuomini che si considerano al di sopra delle leggi.
 "Gli uomini si dividono in -ordinari- e -straordinari-.Quelli ordinari devono vivere nell'obbedienza e non hanno diritto di violare la legge, perché essi, vedete un po', sono appunto ordinari. Quelli straordinari, invece, hanno il diritto di compiere delitti d'ogni specie e di violare in tutti i  i modi la legge, per il semplice fatto di essere straordinari". Così argomenta il personaggio di Dostoevskij, uno studente povero.
Quindi, per assimilarsi a questi presunti superuomini, il ragazzo giungerà ad un duplice delitto e terminerà in Siberia. Un monito da tenere presente. Se Raskòlnikov guardava a Napoleone come esempio da imitare, ora i modelli pericolosi per tanti sprovveduti sono, ben più meschinamente, i vari Briatore di turno sulla ribalta.
Una buona difesa da tali abbagli che accecano le menti è appunto “la” cultura.
Chi ha la buona abitudine di leggere gli ottimi autori viene spinto a indagare se stesso ( Eraclito), a conoscere se stesso (come prescriveva l'oracolo delfico), a trarre comprensione anche dal dolore (Eschilo), a sviluppare in pieno la propria personalità fino a diventare quello che veramente è (Pindaro). L’abitudine alla lettura, soprattutto per chi proviene da famiglie scarsamente secolarizzate, si prende a scuola.
Bisogna lottare perché la sostanza dell'umanesimo, della cultura, della civiltà, rimanga nelle nostre aule scolastiche. E non solo. In Il giuoco delle perle di vetro, Bildungsroman di Herman Hesse leggiamo queste parole profetiche: "Si sa o si intuisce che quando il pensiero non è puro e vigile, quando la venerazione dello spirito non è più valida, anche le navi e le automobili incominciano presto a non funzionare, anche il regolo calcolatore dell'ingegnere e la matematica delle banche e della borsa vacillano per mancanza di valore e di autorità, e si cade nel caos (.) Erano tempi feroci e violenti, tempi caotici e babilonici nei quali popoli e partiti, vecchi e giovani, rossi e bianchi non s'intendevano più. Andò a finire che, dopo sufficienti salassi e un grande immiserimento, sempre più forte si fece sentire il desiderio di rinsavire, di ritrovare un linguaggio comune, un desiderio di ordine, di costumatezza, di misure valide, di un alfabeto e di un abaco che non fossero dettati dagli interessi dei grandi, né venissero modificati a ogni piè sospinto. Sorse un bisogno immenso di verità e giustizia, di ragionevolezza, di superamento del caos".

Passiamo al “merito”. Questa è una parola che contiene l'idea di reciprocità. Si compie bene un lavoro e se ne ottiene un compenso.
Reciprocità, ovviamente nel bene, non è una brutta parola, come non lo è “contrappasso” nel male.
Nel poema agricolo di Esiodo leggiamo : "a se stesso apparecchia il male l'uomo che lo prepara per un altro, e il pensiero cattivo è pessimo per chi l'ha pensato" (Opere e giorni, vv. 265-266).
Tommaso d'Aquino spiega il contrappasso con queste parole: " Sed haec est forma divini iudicii, ut secundum quod aliquis fecit patiatur" (S. Theol. II, II, 61, 4 3), “ma questo è il sistema del giudizio divino, che uno riceva secondo quello che ha fatto”.
Diffido di chi sbandiera la propria generosità e santità ripetendo di essere uno che fa del bene a tutti senza aspettarsi nulla in cambio. Mi ricorda il sanguinario Riccardo III di Shakespeare, quando, ancora duca di Gloucester, in un breve monologo dice di se stesso che "copre la propria nuda scelleratezza con vecchi scampoli carpiti a casaccio alla Sacra Scrittura e tanto più sembra un santo quanto più fa il diavolo" ( Riccardo III, I, iii).
Il merito dunque merita compenso e vuole essere riconosciuto. La capacità, l’impegno, la lealtà. la generosità sono meritevoli di riconoscimento in termini di onore innanzitutto, poi anche di remunerazione materiale, che non costituisca però una umiliazione di chi ha avuto in dono dal destino talento e volontà inferiori.
Intendo dire che la mercede del merito non deve essere sproporzionata rispetto alle necessità di ogni persona, di ogni famiglia.
Le disuguaglianze colossali sono una negazione della democrazia e della libertà.
La meritocrazia, come la democrazia, dovrebbe escludere la pre-potenza che appartiene alla gamma dei significati della parola kratos. Merito massimo, soprattutto nel caso dell'uomo politico, è impiegare le proprie capacità per il bene della comunità. Governare, amministrare deve essere un servizio reso alla comunità, non una fonte di lucro individuale e colossale. Minister deve essere uno che compie un servizio.
Meritevole, e davvero morale, è il servizio che si rende favorendo la vita, la propria e quella degli altri.
Concludo con la “competitività”. Esiodo la chiama Eris e distingue quella buona da quella cattiva
Buono è lo spirito di emulazione che, posto alle radici della terra (Opere e giorni, 19), ossia alla base del progresso umano, spinge a migliorarsi continuamente, a fare sempre meglio.
Da biasimare è invece l’Eris che “fa crescere la guerra e la contesa funesta” (v. 14), ossia la competizione che tira a pre-potere.
Qualcuno potrebbe obiettare che senza reciprocità, senza compenso, senza competitività non vi è motivazione. Rispondo che la spinta più forte ad agire viene dal constatare che le nostre azioni contribuiscono al bene comune oltre che al nostro.
Tanti giovani, ben lungi dall'essere fannulloni, e pure tanti non giovani provano questo nobile desiderio.
E' nell'incrocio fra il voler acquisire sapere e la soddisfazione di trasmetterlo che si sostanzia, da sempre una ricompensa reciproca fra l'allievo e il docente. Chi non lo sa? Eppure è un dato che sembra smarrito.

“Riforma della scuola” n°16